Da diversi mesi, sempre più spesso sentiamo parlare di Quiet Quitting e Great Resignation. Il primo fa riferimento alla mancanza di coinvolgimento sul luogo di lavoro che porta a ridurre i propri sforzi al minimo indispensabile, il secondo invece fa riferimento alle dimissioni di massa che, dagli Stati Uniti sino a comprendere anche il nostro Paese, rischia di mettere in seria difficoltà la ripartenza delle aziende. Secondo l’ultimo Osservatorio Inps sul Precariato, su un totale di cessazioni contratti a tempo indeterminato nel primo semestre del 2022 pari a 927.319 ben 624.047 sono state per dimissioni, le quali registrano un consistente incremento sia a confronto coi due anni precedenti (+22% rispetto al 2021) sia a confronto con gli anni pre-pandemia (+28% rispetto al 2019).
Numeri che si traducono in altissimi costi di turnover per le aziende: uno studio della Society for Human Resource Management (SHRM) afferma che i datori di lavoro devono spendere l’equivalente di sei-nove mesi di stipendio di un dipendente per trovare e formare il suo sostituto; ciò significa per esempio che all’azienda assumere e formare il sostituto di un dipendente con un salario di 60mila euro costerà dai 30mila ai 45mila euro. Risulta dunque necessario contenere le dimissioni volontarie evitando che il desiderio di abbandonare il proprio posto di lavoro si diffonda nell’organizzazione per via di lavoratori che, in procinto di compiere questa scelta, possono incoraggiare i colleghi a seguirli, e per questo detti ora “Quit Influencer”. A puntare i riflettori su questa figura il Global Workforce of The Future Report 2022 di Adecco Group, che esamina le prospettive dei lavoratori su argomenti chiave che influiscono sul futuro del lavoro e per questa terza edizione della ricerca – realizzata tra aprile e maggio 2022 – ha previsto la somministrazione di un sondaggio online di 20 minuti nelle lingue locali a oltre 30.000 lavoratori distribuiti su 25 Paesi, tra cui l’Italia, di cui metà operativi in ufficio e metà no e impiegati dallo stesso datore di lavoro per almeno due mesi.
Indice degli argomenti
Quit Influencer: chi è e come influisce sull’organizzazione
Il Global Workforce of The Future Report 2022 ha fatto emergere la figura del Quitinfluencer, neologismo col quale si definisce il lavoratore che lascia il proprio posto incoraggiando gli altri colleghi a fare lo stesso. In realtà, soprattutto in contesti lavorativi tossici in cui serpeggia l’insoddisfazione, di Quit Influencer ce ne sono sempre stati: colleghi più coraggiosi, o magari più attrezzati per poterlo fare, che si sono dimessi e hanno provato a motivare gli altri a intraprendere la stessa scelta. Il punto è che oggi le aziende non se lo possono più permettere di perdere risorse. Inoltre, i lavoratori sono certamente più predisposti a rischiare di cambiare e questa volta “la parolina giusta” può far scattar davvero all’azione.
Del resto, rivela lo studio, 6 lavoratori su 10 (61%) sono fiduciosi (meno in Paesi quali Italia, Giappone, Francia e Spagna) di essere in grado di trovare un nuovo lavoro in sei mesi o meno, anche se incombe la recessione. Che i Quit Influencer riescano ora a minare gli equilibri di un’organizzazione appare sempre più evidente anche dai numeri: 7 lavoratori su 10 hanno ammesso di aver preso in considerazione l’idea di lasciare l’occupazione dopo aver visto altri andare via, con un livello di influenza più alto tra i giovani lavoratori della Gen Z che hanno il 25% di probabilità in più di lasciare il lavoro rispetto ai Baby Boomer.
Come le aziende possono difendersi dai Quit Influencer, o meglio, come possono difendersi da se stesse
Ciò che però è emerso altrettanto chiaramente dallo studio è che l’ascendente del Quitinfluencer sui colleghi può essere arginato solo lavorando sull’organizzazione. Se infatti questo genere di persone ha evidenti argomentazioni per sostenere la sua scelta e spingere i colleghi a fare altrettanto, significa che è solo questione di tempo prima che altri lavoratori prendano la via dell’uscita.
I ricercatori Adecco individuano così quattro leve su cui agire nel processo di “fidelizzazione delle persone”: salario, flessibilità, avanzamento di carriera, e salute mentale e benessere.
Lo stipendio
Il 45% dei lavoratori tra quelli che affermano di voler cambiare lavoro entro 12 mesi è spinto dal desiderio di ottenere uno stipendio migliore. Tuttavia, quando i lavoratori si sentono ingaggiati lo stipendio scende al sesto posto nella scala di priorità. Dal punto di vista economico, la ricerca individua l’inflazione come una delle principali cause di preoccupazione per i lavoratori: 3 su 5 (61%) in tutto il mondo sono preoccupati che il loro stipendio non sia sufficientemente alto per gestire gli attuali tassi di inflazione e la conseguente crisi del costo della vita. Ciò, oltre a rendere determinante il livello di salario nella ricerca di un nuovo lavoro, rende più della metà (51%) dei lavoratori più propensi a cercare un secondo lavoro, con quasi quattro lavoratori non di scrivania su 10 (35%) che ammettono di aver svolto lavori “in contanti” per sbarcare il lunario. Le organizzazioni devono dunque: garantire che gli stipendi rimangano competitivi in tempi di estrema incertezza economica e politica; creare un collegamento migliore tra retribuzione e rendimento, ovvero invece di concentrarsi eccessivamente sulle ore lavorate, le organizzazioni dovrebbero investire in coaching, tecnologia e analisi per definire obiettivi, misurare e compensare i lavoratori per il loro set di competenze, esperienza e output in modo più efficace; nonostante la minaccia della scarsità di talenti, le organizzazioni non dovrebbero concentrarsi sull’attraction a scapito della retention.
La flessibilità
La flessibilità è stata una chiave per attrarre e trattenere i migliori talenti anche prima della pandemia, ora però, dopo averla sperimentata ampiamente, la domanda di maggiore autonomia da parte dei lavoratori è in aumento. Lo è a tal punto da essere diventata una discriminante nella scelta di accettare o proseguire un lavoro o meno: 6 lavoratori da scrivania su 10 stanno valutando di cambiare lavoro o l’hanno già fatto per avere maggiore flessibilità. A guidare la richiesta di flessibilità la Gen Z, con quasi la metà dei suoi appartenenti al gruppo che già lavora una settimana di quattro giorni (47%), anche se il 64% ha subito una riduzione dello stipendio per farlo. Volendo, invece, definire un buon equilibrio tra lavoro da remoto e lavoro in azienda che possa soddisfare le aspettative dei lavoratori senza pregiudicare i risultati di business, le organizzazioni tengano presente che un modello lavoro ibrido articolato in 3,2 giorni in azienda e 1,9 da remoto (che è ciò che la maggior parte degli intervistati riferisce accade) non trova seguito tra i lavoratori che preferirebbero poter lavorare a distanza per più tempo, almeno 2,6 giorni. Con i lavoratori che continuano a richiedere autonomia sull’orario di lavoro, sul luogo di lavoro, sui permessi e sulla pianificazione, le organizzazioni devono procedere con cautela quando intendono riprende il controllo sulla flessibilità, avvisano gli autori dello studio.
L’avanzamento di carriera
Per il 31% dei lavoratori intervistati il motivo principale che spinge a lasciare il posto è la mancanza di opportunità di carriera e di opportunità di reskilling e upskilling, e il 44% di coloro che vogliono rimanere nell’attuale azienda lo farebbe solo a condizione di avere una riqualificazione e avanzamento nel proprio lavoro. Per le aziende che si stanno impegnando nel trovare e trattenere i talenti, stipendio e avanzamento di carriera sono dunque leve chiave per tutti i lavoratori e dove la soddisfazione è ai livelli più bassi. Tuttavia vediamo che lo stipendio è aumentato molto di più per i manager che per i non manager e anche che i manager sono molto più esposti alle opportunità di formazione e alle conversazioni sull’avanzamento di carriera (60% contro 40%), e solo il 36% dei non manager afferma che la propria azienda investe e valuta le proprie competenze. Le organizzazioni devono dunque affrontare urgentemente l’insoddisfazione per le opportunità di sviluppo professionale, in particolare per i non manager. Con il 77% dei lavoratori che afferma di avere uno skill gap, le organizzazioni che lottano per trovare le giuste competenze nel mercato del lavoro devono investire nella mappatura delle competenze, nella riqualificazione e nel miglioramento delle competenze, sostengono i ricercatori.
La salute mentale e il benessere
Un quarto di tutti i lavoratori afferma che la propria salute mentale è peggiorata nell’ultimo anno e il burnout continua a essere un problema globale che abbraccia tutti gli intervistati indipendentemente da età, nazionalità o sesso. Spagna (32%), Italia (31%) e Francia (31%) sono i Paesi in cui la salute mentale è peggiorata di più tra i lavoratori negli ultimi 12 mesi, con i non manager che ne hanno risentito di più. Il burnout è ancora motivo di preoccupazione per metà della forza lavoro con quasi 4 lavoratori su 10 (36%) che affermano di aver sofferto di burnout e quasi 1 su 4 che ha preso una pausa dal lavoro negli ultimi 12 mesi a causa di ciò. Le persone vogliono lavori in cui si sentano meno esaurite e possano raggiungere un miglior equilibrio tra lavoro e vita privata: il 35% degli intervistati afferma che lascerà il lavoro nei prossimi 12 mesi a causa di problemi con l’equilibrio tra lavoro e vita privata e il burnout. Tuttavia solo il 33% dei lavoratori utilizza tutti i giorni di ferie assegnati per mantenere il proprio benessere mentale.
Le aziende non possono fare a meno di porre attenzione a questi numeri perché una forza lavoro emotivamente prosciugata non è solo dannosa per gli individui, ma può anche avere un costo elevato in termini di produttività e morale, oltre a incoraggiare ambienti tossici in cui le persone sono indotte ad entrare in modalità Quiet Quitting. Incoraggiare i lavoratori a prendere le ferie annuali complete, creare una cultura di fiducia e sicurezza e consentire il congedo per malattia per motivi di salute mentale sono le tre principali misure indispensabili che le aziende dovrebbero attuare per sostenere il benessere dei lavoratori secondo i professionisti Adecco. Inoltre sia i manager che i lavoratori devono essere istruiti e incoraggiati ad avviare conversazioni sulla salute mentale e sul benessere. L’utilizzo della tecnologia e dei big data per il benessere dei dipendenti può aiutare le aziende ad avere una maggiore visibilità sugli indicatori di avviso di burnout e sollevare segnalazioni a chi di competenza.