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Ascolto attivo: partire dalla comprensione reciproca per raggiungere la coralità organizzativa



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Concentrarsi sul “battito” delle persone che lavorano in azienda migliora le relazioni, riduce i conflitti e promuove il cambiamento, favorendo una sostenibilità personalizzata e rendendo le dinamiche lavorative più efficaci e umane A ribadirlo è anche il World of Work Trends Report di Top Employers Institute

Pubblicato il 28 ago 2024

Giovanni Di Muoio

Divulgatore HR, Membro AIDP



Ascolto attivo

Una delle cose evidenziate dal World of Work Trends Report di Top Employers Institute è la necessità di ascoltare il battito dell’organizzazione. Non stupisce sopratutto se si considera che rientra nella più ampia sfera del concetto di ascolto attivo, spesso menzionato nelle conversazioni. Si tratta di una dimensione che non può essere sottovalutata, L’ascolto attivo implica un’attenzione profonda e un coinvolgimento reale, che vanno oltre le parole pronunciate. È un’abilità che può trasformare le dinamiche relazionali e organizzative, portando a una comprensione più autentica e a un’interazione più efficace. È un percorso impegnativo, ma non impossibile.

Cogliere la coralità con un ascolto attivo sugli individui

La domanda che sorge spontanea è capire se le organizzazioni hanno un cuore che batte o è la sommatoria di tutti i battiti delle persone che la vivono, ognuno a modo proprio (e qui si ritorna nella sfera di ascolto attivo). Mi piace il concetto di coralità, mi fa pensare all’idea di gruppo e a certa musica che scandisce certi momenti che sono e rimangono solamente nostri e ci fanno capire quanta bellezza c’è nelle pieghe di una solitudine creativa. Un po’ come il colesterolo. C’è quello buono e quello cattivo. Accade lo stesso per la solitudine. David Foster Wallace che è stato uno dei più geniali autori di narrativa degli ultimi anni diceva che “se presti attenzione puoi arrivare a sentire il rumore che fa il fumo del caffè quando esce dalla tazzina”. Questo per dire che l’ascolto è una roba seria e non ci si improvvisa e nobilita un sacco chi lo esercita e chi ne è destinatario. E forse la soluzione in fin dei conti è molto più semplice e consiste nell’elevare il concetto di ascolto a una forma più intima concentrandosi non sulle parole ma sul battito che quella persona produce vivendo la sua esperienza di employee o anche di leader diventando quindi “attivo”, per cogliere ogni aspetto tenendo conto anche del tono di voce, delle esitazioni e delle emozioni che trapelano da quanto viene detto.

Per fare questo, dovremmo attrezzarci con lo spirito di chi restituisce qualcosa all’altro, intercettare certi pensieri, seguirne le traiettorie, ricordare che i battiti non solo soltanto un indicatore di vitalità ma sono anche un modo per reagire al torpore. Si tratta, quindi, di un invito alla consapevolezza, a non lasciarsi sopraffare e provare a scendere in campo, confrontarsi. Potremmo accorgerci, con stupore, che l’azione di sostenere uno sguardo è meno complicata di quello che ci appare.

Personalizzare il concetto di sostenibilità con l’ascolto: servono comprensione e semplificazione

Il lessico aziendale è molto più algido e schematizza in modo preciso il termine sostenibilità legandolo a fattori come quello ambientale, quello produttivo e quello più nobile che si prefigge di combattere ogni tipo di diseguaglianza. Ce ne sarebbero anche molti altri ma l’idea che possa esistere una personalizzazione del concetto di sostenibilità declinata in modo diverso da persona a persona mi rende più fiducioso nel genere umano e mi fa sembrare il tutto meno etereo. Poi ci si incontra nei lunghi corridoi e c’è una cosa che più di ogni altra facciamo fatica a sostenere. Sto parlando degli sguardi. È una roba complicata, nessun manuale o monografia riesce a spiegarlo e succede che abbassiamo gli occhi quasi per riflesso condizionato. Mi sono sempre chiesto il perché e ho provato a darmi delle risposte il più delle volte legate al filo sottilissimo dell’immaginazione. La conclusione alla quale sono giunto è che sostenere lo sguardo è un qualcosa di intimamente connesso al tema del conflitto. Ora proviamo per un attimo ad astrarci dalle consuete dinamiche relazionali in cui finiamo per recitare una parte snaturando quello che realmente siamo barattandolo con quello che vogliamo far apparire. Facciamo un gran parlare di semplificazione, ceselliamo i nostri modelli organizzativi cercando di far emergere il vantaggio competitivo di essere snelli che è figlio se vogliamo di una semplice correlazione tra quello che troviamo scritto da qualche parte e quello che accade nella realtà. E allora per quale motivo l’esercizio della semplificazione resta spesso tale e non si accompagna a un reale cambio di passo, qualcosa che riesce a generare quel valore sintetizzabile con il termine cambiamento? La risposta è tutta nella distanza che separa le buone intenzioni dalle buone azioni. In un mondo ideale questi due termini si annullano diventando una sola parola in una perfetta e geometrica sovrapposizione che apre le porte alla comprensione. La realtà ci racconta un copione diverso dove l’incomprensione riesce a permeare molto più velocemente i muri delle nostre organizzazioni. Facciamo una fatica immane ad assimilarne i razionali perché il più delle volte ci appaiono concetti fumosi con un’aderenza alla realtà prossima allo zero. Ce li hanno spiegati male o siamo noi che non capiamo o che non vogliamo capire? Domanda da un milione di dollari alla quale non so rispondere perché c’è un fondo di verità in entrambe le dimensioni o sarebbe meglio definirlo un concorso di colpe. Ne sono consapevole, ho utilizzato un termine tossico perché parlare di colpe si finisce sempre per evocare la caccia alle streghe puntando il dito ora su questo ora su quello. Le guerre iniziano così, hanno meccanismi semplici in cui il coraggio lascia il posto alla paura, risposte sbagliate a domande mal poste, la preoccupazione costante di essere in numero superiore ai salvagenti sulla barca come direbbe Dargen D’Amico. Per tutti questi motivi dovremmo poter convenire che ne ha uccisi più una cattiva comunicazione o una comunicazione assente della febbre gialla se il risultato è un conflitto che si alimenta in maniera progressiva e il cui carburante è una quantità smisurata di non ho capito. La reazione a questo stato di cose potremmo sintetizzarla con il termine diffidenza e sbagliamo approccio se ghettizziamo questo aspetto ad una dimensione squisitamente organizzativa perché il conflitto alla fine dei conti ha sempre una deriva di tipo individuale. Colpo su colpo, corpo a corpo, mi difendo e sparo e la guerra, lo capisce anche un bambino, è il contrario dell’amore, non si regge su un gioco di sguardi anzi lo sguardo lo si abbassa per nascondersi o per colpire quando meno te lo aspetti. In sostanza l’azione strategica di traghettare una qualsivoglia organizzazione verso un futuro sostenibile può arrivare a generare più dubbi che certezze se non ci si preoccupa di spiegarlo bene con un meccanismo di concertazione che spesso fatica ad emergere. Il dubbio produce resistenza, la resistenza si esprime con la paura e la paura sfocia in conflitto. Semplificazione significa agire sulla causa radice che è appunto una declinazione condivisa del concetto di sostenibilità.

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