Per comprendere perché il Corporate Wellbeing sta diventando un elemento chiave per le aziende, bisogna fare un passo indietro e analizzare che cosa sta accadendo in azienda intorno alla sfera del benessere.
Complice la pandemia che lo ha portato all’attenzione generale, oggi il wellbeing è riconosciuto come cruciale quando si pensa all’esperienza quotidiana delle persone in azienda. Questo perché sempre più spesso accade che quando i dipendenti non si sentono bene e non percepiscono in modo positivo l’ambiente in cui lavorano non solo perdono la motivazione ma arrivano anche a mettere in discussione la loro permanenza in azienda.
Quello del benessere è quindi un aspetto strategico che abbraccia molti più ambiti di quello che comunemente si possa pensare, com’è emerso recentemente in un webinar organizzato dal Network Digital360, in cui sono stati presentati anche i risultati del white paper, “Il Corporate Wellbeing mismatc”: come rispondere in maniera efficace alle aspettative di benessere dei lavoratori in azienda”, che supporta una serie di considerazioni con i dati raccolti in due indagini, una svolta dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano e una condotta da Jointly, la B Corp italiana specializzata in welfare e Corporate Wellbeing.
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Perché parlare di benessere a lavoro
Come ha sottolineato Martina Mauri, Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, «oggi esiste un forte disallineamento tra ciò che le persone cercano nei contesti organizzativi e ciò che le aziende offrono, segno del fatto che qualcosa non funziona nel mercato del lavoro in Italia. Il benessere è importante perché è ciò che le persone cercano nei luoghi di lavoro ed è il motivo principale per cui le persone cambiano lavoro», come si evince dai risultati della ricerca 2024.
Un benessere che deve fare i conti con una serie di evidenze: «Solo il 19% delle persone è pienamente motivato e coinvolto nelle attività che svolge. Questo disimpegno sfocia nel quiet quitting, portando a fare il minimo indispensabile per non essere licenziate, con conseguenze su produttività e performance. Secondo le stime dell’Osservatorio il 12% dei lavoratori in Italia rientra in questa categoria».
Inoltre, dopo la pandemia, si è parlato molto di crescita delle dimissioni volontarie e della “Great Resignation”: «In Italia il fenomeno è stato meno forte rispetto agli Stati Uniti, ma rimane significativo – ha raccontato Mauri -. Dal 2020, abbiamo monitorato questo aspetto e la percentuale è diminuita di pochi punti: nell’ultimo anno il 42% delle persone ha cambiato lavoro o intende farlo, c’è infatti una fetta consistente di “intenders”, che sta già facendo colloqui».
Quindi, quello che si evince è che per rispondere a queste spinte “negative” è necessario individuare delle nuove strategie che portino le persone a stare bene a lavoro, andando ad agire su un benessere a 360 gradi, «senza tralasciare – ha sottolineato Mauri – un aspetto particolarmente caro oggi alle persone, ovvero quell’equilibrio tra vita privata e lavorativa che per un candidato su quattro diventa una delle metriche per decidere di andare a lavorare o meno in una realtà».
In generale, comunque, a far comprendere perché lavorare in modo efficace sul Wellbeing è una scelta vincente sono i risultati raggiunti da chi in questi anni se n’è occupato concretamente: in queste realtà il livello di engagement sale al 54%. «Inoltre, le persone sono anche più felici a lavoro, quando c’è una strategia di wellbeing che funziona (si passa dal 5% al 23% dei dipendenti)», ha detto la Direttrice.
Perché le iniziative di Wellbeing falliscono
Tuttavia, tornando al disallineamento già citato, quello che si nota è che pur a fronte di iniziative portate avanti dalle organizzazioni per migliorare il benessere sociale, fisico e psicologico (lo fa il 64% delle aziende medio-grandi), appena il 9% dei lavoratori sta bene complessivamente rispetto a queste tre sfere, e solo una persona su quattro percepisce che l’azienda per cui lavora si sta occupa concretamente del Wellbeing.
«Questo vuol dire – ha sottolineato Mauri – che le azioni intraprese non hanno avuto un impatto reale o quantomeno una portata tale da soddisfare le esigenze delle persone».
Da qui la necessità di adottare un approccio più ampio e onnicomprensivo: «In seno all’Osservatorio HR Innovation Practice abbiamo sviluppato un framework chiamato “piramide della felicità”. I gradini più bassi rappresentano un approccio al lavoro buono e sostenibile, che porta alla felicità al lavoro. Questo approccio include il giusto riconoscimento, i benefit che supportano il potere d’acquisto, il benessere fisico, sociale e psicologico, la flessibilità, l’equilibrio vita-lavoro, la valorizzazione della diversità, lo sviluppo delle competenze e l’employability».
A oggi solo il 32% delle organizzazioni ha iniziative diffuse su tutte queste variabili e quello che si riscontra è un impatto sulle persone non rilevante, con bassi livelli di engagement e difficoltà ad attrarre e trattenere talenti. Come emerge dalla ricerca di Jointly, tra le problematiche spicca il fatto che gli investimenti sul benessere sono sproporzionati, con il 90% destinato al giusto riconoscimento e solo il 10% ad altre iniziative, che invece potrebbero avere un impatto più consistente sulle persone. Inoltre, solo 1 azienda su 3 ha effettivamente integrato le iniziative nella People Strategy aziendale e, di queste, solamente la metà stabilisce obiettivi e KPI per definirne il successo.
Inoltre, sebbene il 40% delle aziende monitori alcuni dati legati alle iniziative dedicate al benessere, lo fa senza considerare i KPI rilevanti per comprenderne il reale impatto e prendere decisioni sostenute dalle evidenze (es. si tende a rilevare il tasso di soddisfazione o di partecipazione ad una determinata iniziativa, ma non il miglioramento del benessere psicofisico o il miglioramento nella gestione vita lavorativa – vita privata o l’impatto in termine di engagement che queste iniziative hanno comportato). Un altro 40% non ha addirittura nessuno strumento che consenta di monitorare l’impatto e quindi dire se un’iniziativa è stata efficace o meno.
Quello che si evince quindi è che non si tratta semplicemente di investire di più in iniziative ma di investire meglio e poi serve una strategia sistemica di Corporate Wellbeing.
Ancora una volta i numeri aiutano a definire la strada da intraprendere, che innanzitutto deve partire dall’ascolto, «che, pur essendo un elemento chiave, in troppi casi viene trascurato, al punto che spesso le iniziative di Wellbeing sono ancora calate dall’alto, in modalità top down, al punto che solo il 4% dei lavoratori ritiene che siano in linea con i loro reali bisogni, a rimarcare il fatto che l’organizzazione non li conosce e non riesce a costruire un sistema di servizi che rispecchia le aspettative».
Come si imbastisce una strategia di Corporate Wellbeing
«Per adottare un approccio strategico e strutturato al Wellbeing bisogna passare da interventi con focus individuale a progetti sistemici, che vadano a toccare valori e purpose, la People Strategy, l’Employee Experience e la leadership e la cultura – ha detto Gianlorenzo Sosso, Head of Sales di Jointly –. È quindi necessario fare un passo indietro per acquisire una visione più ampia, cercando di mettere insieme gli aspetti e le iniziative già presenti e su cui si investe, ma che per qualche motivo non raggiungono la piena efficacia».
Come ha sottolineato il manager è fondamentale avere un modello di riferimento quando si parla di Corporate Wellbeing, che prenda in considerazione i diversi aspetti che animano la vita privata e lavorativa, in cui benessere psicofisico, salute, benessere economico si intrecciano con il benessere relazionale, la work-life integration, l’ascolto, la formazione continua, la Diversity & Inclusion e la cultura manageriale.
A lui ha fatto eco Emanuele Madini, Senior manager di Methodos, azienda che da oltre 40 anni accompagna le aziende nel cambiamento: «L’ascolto è un aspetto fondamentale, ma deve essere un ascolto strategico, radicato nella cultura aziendale. E nel disegnare la strategia di Corporate Wellbeing si deve partire dalla cultura, dal purpose e dai valori aziendali».
In particolare, Methodos e Jointly hanno sviluppato un percorso che aiuta le aziende ad affrontare il tema del benessere in modo strategico, che parte con un check-up iniziale per valutare non solo il benessere attuale dei dipendenti e i loro bisogni, ma anche gli elementi sistemici che influenzano il Wellbeing. Questo permette di individuare le leve che l’organizzazione può utilizzare.
Successivamente, si passa alla fase di “strategy design”, che prevede la definizione della Corporate Wellbeing value proposition e di una roadmap: «Ogni azienda, in pratica, crea la sua proposta di valore, scegliendo iniziative di Wellbeing che rispondano ai bisogni dei dipendenti e siano in linea con la propria filosofia», ha detto Madini.
Segue l'”activation”, passaggio cruciale che vede il concretizzarsi dei percorsi di Change Management, delle iniziative specifiche per lo sviluppo professionale e per rispondere ai diversi bisogni. «Per abilitare un approccio sistemico è fondamentale arrivati a questo punto poter contare sul supporto di una piattaforma di Corporate Wellbeing, modulare e personalizzabile, come Joy di Jointly, che deve diventa un unico access point di tutti i benefit e delle iniziative per il benessere aziendale».
L’ultimo tassello del percorso, “evolve & adapt”, prevede l’introduzione e l’utilizzo di dashboard di rilevazione adoption e monitoraggio dei KPI, survey di osservazione periodiche e il lancio di nuove iniziative.
«Tutto il processo deve essere accompagnato da un piano di comunicazione/branding e onboarding – ha sottolineato Madini -. La comunicazione deve essere continua e i progetti a lungo termine. Inoltre, gioca un ruolo importante far comprendere che queste iniziative richiedono un cambiamento culturale che parta dai leader, che per primi devono considerare il Wellbeing una priorità».
«Le possibilità sono davvero tante – ha ribadito Sosso – e si deve fare sistema tra attività di employer branding, engagement, comunicazione interna ed esterna, cercando di incanalare tutto in un approccio uniforme. E anche in questo caso la tecnologia gioca un ruolo importante perché consente di coinvolgere le persone, attraverso ad esempio la visualizzazione di suggerimenti con popup, e di raccogliere feedback continui, attraverso degli strumenti che consentono di creare delle abitudini virtuose e che ricordano costantemente che l’azienda sta pensando al benessere delle persone mettendo a disposizione supporti e soluzioni».
Infine, è importante adottare una metodologia di assessment che non si concentri solo sull’individuo, ma anche sulle dimensioni che influenzano il benessere. «Troppo spesso non si prendono in considerazione alcuni dei fattori che influenzano l’Employee Experience, il senso di appartenenza e il work-life balance – ha detto Madini -. Questo è un passaggio importante per spostarsi da una visione individuale all’azione su leve sistemiche delle organizzazioni, includendo l’analisi del modello di leadership, la dinamica di collaborazione e la cultura del lavoro in team, oltre ad alcune dimensioni aziendali core come la formazione, la comunicazione e le politiche di lavoro flessibile».
Alla base di tutto serve comunque un approccio data-driven, che prenda in considerazione le informazioni estrapolate da survey, dalla partecipazione a percorsi formativi, dell’utilizzo dei servizi di welfare, e dati su soddisfazione, assenteismo e turnover – ha concluso Madini -. Questo permette di avere una visione sistemica e di non concentrarsi su un singolo aspetto, ma di considerare il Wellbeing a 360 gradi e capire quanto le iniziative stiano effettivamente funzionando».
In questo quadro la tecnologia non deve essere un fine, ma un mezzo, come ha ribadito Sosso: «Quello che serve alle aziende è un hub digitale che racchiuda la “storia di Wellbeing” di ciascuna realtà e che abiliti le persone a conoscere meglio e mettere a sistema tutto quello che l’organizzazione già fa e non viene valorizzato abbastanza. Joy, ad esempio, si adatta all’approccio aziendale al Corporate Wellbeing e stimola costantemente le persone, cogliendo feedback e ingaggiandole. Inoltre, l’hub digitale può evolvere per intercettare delle sfumature specifiche di esigenze, in termini di salute mentale e wellness (per quanto riguarda il benessere psicofisico), di flexible benefit (a proposito del benessere economico), di assistenza, genitorialità e mobiliy (per la work-life integration), fino a toccare la sfera della salute mentale (nell’ambito dell’ascolto e del supporto organizzativo) e i benefit e gli interventi aziendali, in favore della D&I».