Quella del periodo di comporto per i lavoratori con disabilità – ovvero il periodo massimo di assenze per malattia oltre il quale scatta il licenziamento – è una tematica che ha coinvolto negli anni il legislatore italiano ed europeo, oltre alla giurisprudenza, con importanti approdi, utili a guidare le decisioni aziendali in momenti delicati:
- l’applicazione del periodo di comporto per i lavoratori con disabilità può costituire discriminazione indiretta, in considerazione del fatto che i lavoratori con handicap sono inevitabilmente esposti ad un maggior rischio di contrarre patologie di qualunque tipo.
- il datore di lavoro, per evitare una discriminazione indiretta, avrebbe l’obbligo di introdurre degli accomodamenti ragionevoli, ossia una serie modifiche e adattamenti necessari a garantire ai lavoratori disabili il loro diritto al lavoro su una base di uguaglianza effettiva con gli altri colleghi.
- anche la Corte di Cassazione, con la sentenza 31 maggio 2024, n. 15282, ha affermato che il rischio di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in considerazione dal datore di lavoro, con la conseguenza che l’applicazione del periodo di comporto come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata.
In via generale, come noto, nel corso del periodo di malattia, il rapporto di lavoro rimane in un certo senso “sospeso”, con il lavoratore che mantiene il diritto alla conservazione del posto di lavoro per un determinato periodo di tempo (spesso fissato dalla contrattazione collettiva) che prende il nome di periodo di “comporto”: una volta superato tale termine, il datore di lavoro può legittimamente recedere dal rapporto di lavoro.
Una particolare attenzione, tuttavia, merita la tematica del licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore con disabilità e, di conseguenza, la computabilità delle sue assenze per malattia.
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Periodo di comporto e discriminazione indiretta
Il tema è da tempo al centro di un dibattito normativo, giurisprudenziale e dottrinale, in virtù del rischio che il licenziamento per superamento del periodo di comporto di un lavoratore con disabilità possa, di fatto, costituire una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore e risultare, pertanto, nullo.
La discriminazione indiretta del lavoratore disabile, definita dall’art. 2, lett. B) della Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 come una discriminazione “fondata sulla disabilità quando una disposizione apparentemente neutra possa mettere in una posizione di particolare svantaggio la persone disabile“, deriverebbe dall’applicazione, nei suoi confronti, del medesimo limite temporale previsto per i lavoratori non disabili.
Un’applicazione indiscriminata del periodo di comporto non terrebbe conto del fatto che i lavoratori con handicap sono inevitabilmente esposti ad un maggior rischio di contrarre patologie di qualunque tipo e, di conseguenza, sono esposti ad un maggior numero di giorni di assenza dal lavoro per malattia.
Secondo le più recenti sentenze di legittimità e di merito, infatti, sussiste un divieto, in capo al datore di lavoro, di conteggiare, ai fini del periodo di comporto, le assenze per malattia che derivino dallo stato di disabilità del dipendente. Si pone dunque, inevitabilmente, il tema di come calcolare i giorni di effettiva assenza dal lavoro.
Periodo comporto lavoratori disabili: gli accomodamenti ragionevoli
Proprio per evitare queste discriminazioni indirette, la Direttiva europea stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di rapporto di lavoro ed introduce, all’art. 5, il concetto di accomodamenti ragionevoli.
Secondo la Direttiva europea “per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato“.
La normativa dell’Unione Europea, pertanto, tenta di fornire una definizione di accomodamento ragionevole, come quelle misure e quelle pratiche che sono destinate a rendere il luogo di lavoro funzionale ed inclusivo alle persone con disabilità.
L’obiettivo degli accomodamenti ragionevoli è consentire alle persone con disabilità di accedere all’occupazione, di svolgere la prestazione lavorativa e di avere le stesse opportunità dei colleghi senza disabilità. Anche il legislatore italiano ha riconosciuto la necessità, per il datore di lavoro, di adottare – ai sensi dell’art. 3, co. 3-bis, del D. Lgs. n. 216 del 2003 – i c.d. “accomodamenti ragionevoli” nei luoghi di lavoro. Si tratta, in effetti, di introdurre una serie modifiche e adattamenti necessari a garantire ai lavoratori disabili il loro diritto al lavoro su una base di uguaglianza effettiva con gli altri colleghi.
Chiaramente, non esiste un obbligo che prescinda da una valutazione del caso concreto nell’introduzione di tali adattamenti. Infatti, la Cassazione ha affermato a più riprese che tali misure non devono imporre “un onere finanziario sproporzionato“, e devono essere prese “anche in presenza di un costo sostenibile per l’impresa”, vista l’esigenza di “mantenimento degli equilibri finanziari“.
In ogni caso, bisogna tenere conto, con riferimento al periodo di comporto, che i più recenti provvedimenti della giurisprudenza tengono in considerazione una posizione di maggior apertura e favore nei confronti dei lavoratori disabili. Già la giurisprudenza di merito, infatti, ha chiarito come il recesso datoriale per superamento del periodo di comporto applica una disposizione neutra (la normativa su comporto e malattia) che, però, concretamente penalizza il lavoratore disabile, se la malattia è collegata al suo status. Su questa base, al fine di veder riconosciuto il recesso per superamento del periodo di comporto come legittimo, il datore di lavoro dovrebbe essere in grado di provare che l’assenza dal lavoro sia indipendente dalla disabilità.
Su questa scorta, si collocano le ultime approdi dei giudici di legittimità. Si veda, ad esempio, quanto deciso dalla Corte di Cassazione, Sezione lavoro, con la sentenza 31 maggio 2024, n. 15282, con cui si è affermato che “il rischio aggiuntivo di essere assente dal lavoro per malattia di un lavoratore disabile deve essere tenuto in conto nell’assetto dei rispettivi diritti ed obblighi in materia, con la conseguenza che la sua obliterazione in concreto, mediante applicazione del periodo di comporto breve come per i lavoratori non disabili, costituisce condotta datoriale indirettamente discriminatoria e, perciò, vietata“.
Di per sé, quindi, la mancata considerazione della maggiore esposizione alla morbilità dei lavoratori disabili – proprio come conseguenze della loro disabilità – comporta necessariamente una prassi discriminatoria nei confronti di un soggetto in posizione di particolare svantaggio.
In aggiunta, la Cassazione pone in rilievo il bilanciamento tra due contrapposti interessi, ovvero quello del dipendente disabile alla tutela della propria privacy e quello del datore di lavoro che – al fine di non incorrere in un atto di recesso illegittimo – sarà titolato, ricorrendone i presupposti, ad effettuare una verifica in merito alle assenze in questione.
La Corte di Cassazione, infatti, ha ricordato a più riprese che la conoscenza o anche solo la conoscibilità dello stato di disabilità del lavoratore fa sorgere, in capo al datore di lavoro, l’onere a cui non può corrispondere un comportamento ostruzionistico del lavoratore – di acquisire, prima di procedere al licenziamento, informazioni circa l’eventualità che le assenze per malattia del dipendente siano connesse allo stato di disabilità, al fine di individuare possibili i c.d. accorgimenti ragionevoli“.
Le possibili soluzioni
Si ritiene auspicabile, in considerazione di quanto esaminato sinora e per prevenire una situazione di impasse che risulterebbe altrimenti difficile da evitare, che, nel contesto del rinnovo della contrattazione collettiva applicabile ai rapporti di lavoro, le parti sociali chiariscano esaustivamente la tematica in questione, attraverso l’introduzione di specifiche previsioni contrattuali che affrontino adeguatamente il tema.