In un’epoca in cui la Digital Transformation è pervasiva, anche il mondo del lavoro sta attraversando una fase di radicale cambiamento che coinvolge spazi, tempi, ruoli. È un cambiamento abilitato dalle tecnologie, ma non è un cambiamento tecnologico. È semmai un cambiamento strategico che attraversa tutte le imprese e tutte le figure professionali, sempre più coinvolte nelle nuove logiche smart.
Non a caso di Smart Working si parla, anche se, va detto, spesso non del tutto a proposito. Spesso, il termine viene utilizzato per definire modalità di lavoro che non richiedono la presenza fisica e costante del dipendente o del collaboratore in ufficio o in azienda. In effetti, il remote working è uno degli aspetti che caratterizzano il lavoro smart, ma non è certo il solo.
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Tra Smart Working e lavoro agile
Ci si avvicina di più all’idea di Smart Working quando si prende in esame un’ulteriore definizione delle nuove modalità operative del mondo del lavoro: l’agile working. Il lavoro agile è garantito in Italia dal decreto legge 81/2017, entrato in vigore nel mese di giugno di due anni fa, dal titolo “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, nel cui testo si legge che il DDL “promuove il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. La prestazione lavorativa viene eseguita in parte all’interno di locali aziendali e, senza una postazione fissa, in parte all’esterno entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.
Probabilmente la definizione più corretta di cosa sia effettivamente lo Smart Working è quella che fa riferimento a un modo più efficiente di lavorare, nel quale le persone sono focalizzate più sui risultati che sui processi, trovano nella tecnologia un importante abilitatore, lavorano in modo flessibile, collaborano in modo efficiente sia all’interno dei propri gruppi di lavoro e dei propri dipartimenti sia con altri team e reparti presenti nell’organizzazione, sono focalizzate sulla massimizzazione della produttività, ma anche sulla riduzione dell’impatto ambientale.
I sei pilastri del lavoro smart
Obiettivi chiari, come si vede, tuttavia richiedono importanti ripensamenti sia sugli aspetti logistici, sia sugli spazi, sia sulle tecnologie, sia ancora sulla connettività che abilita la collaborazione. Senza dimenticare un aspetto chiave: la sicurezza, senza la quale informazioni, dati sensibili e la credibilità stessa dell’impresa sono a rischio.
Possiamo dunque identificare sei principi fondanti sui quali si articola il lavoro smart. In primo luogo, non esistono luoghi o tempi predeterminati per lo svolgimento di un lavoro: si introduce un concetto di flessibilità, naturalmente nel rispetto del compito richiesto, delle esigenze del gruppo di lavoro e di quelle del singolo dipendente.
Il secondo principio fondante è quello della collaborazione e della connettività ubique: questo significa condividere informazioni, flussi e documenti con il proprio gruppo di lavoro o con gruppi di lavoro estesi, indipendentemente dal luogo in cui ci si trova fisicamente.
In terzo luogo, anche gli spazi nei luoghi di lavoro non vengono più allocati secondo logiche “ad personam” e nemmeno secondo logiche di seniority, bensì sulla base delle attività che vi si svolgono.
Un ulteriore aspetto – in questo caso di tipo culturale – è quello della flessibilità. Nelle aziende si parla di un approccio “flexibility first”, nel quale la flessibilità è la regola e non l’eccezione.
Sempre di flessibilità tratta anche il sesto pilastro del lavoro smart: i processi vengono continuamente rivisti e adattati, per essere certi che rispondano al meglio allo scopo.
Infine, le misurazioni vengono effettuate sulla base dei risultati e non della presenza effettiva del dipendente nel luogo di lavoro.
I vantaggi di questo tipo di approccio sono un miglioramento della produttività e dell’efficacia operativa, una più efficace gestione degli spazi e una conseguente riduzione dell’impatto ambientale, un miglioramento del cosiddetto work-life balance per i dipendenti, una maggiore collaborazione tra le persone e i team supportata dalle nuove leve tecnologiche.
Un approccio culturale
Probabilmente, l’errore più grande che le aziende possono fare quando si avvicinano a modalità di lavoro smart è pensarlo solo in termini di adozione tecnologica: quali strumenti, quali tecnologie, quali infrastrutture adottare. In realtà, come abbiamo già accennato, lo Smart Working è prima di tutto una questione culturale, che prima ancora delle tecnologie ha bisogno di un ripensamento delle modalità operative, dei processi e delle relazioni delle persone, così da incoraggiare ciascun membro di un team a promuovere iniziative e ad assumersi la responsabilità rispetto agli obiettivi fissati.
È un percorso di cambiamento che coinvolge persone, processi e tecnologie, e come sottolinea Emanuele Madini, Associate Partner di bisogna evitare le false partenze – bisogna evitare le false partenze: il cambiamento non va mai affrontato in modo superficiale, seguendo una moda e sottovalutando gli impatti strategici potenziali.
Punto primo: le persone
Oggi i dipendenti e i collaboratori di una azienda si aspettano di poter accedere ai propri strumenti, documenti e informazioni in modalità ubiqua e su qualunque dispositivo, di poter comunicare con i colleghi anche al di fuori degli spazi fisici tradizionali, di poter condividere e collaborare sugli stessi task e documenti. È chiaro che per un’azienda sia fondamentale poter garantire questo tipo di esperienza, non fosse altro che per non correre il rischio di perdere i propri talenti interni a favore di qualche concorrente che invece la garantisce. Per questo è indispensabile un atteggiamento di ascolto, per comprendere come i dipendenti lavorano e come desiderano lavorare, al fine di mettere a loro disposizione gli strumenti, la conoscenza e l’ambiente che si aspettano e di cui hanno bisogno.
Punto secondo: i processi
Bisogna prenderne atto: modelli tradizionali o comunque imposti dall’alto rischiano di non essere adatti alla velocità e alla dinamicità imposte dal business oggi. Nel momento in cui ci si muove verso la creazione di un digital workplace, è necessaria la creazione di un team che riveda i processi, basandosi sui comportamenti dei dipendenti e analizzi cosa funziona e cosa no, cosa può essere migliorato e in quale modo, con l’obiettivo di garantire nuovi livelli di efficienza, senza penalizzare l’experience di chi lavora.
Punto terzo: le tecnologie
Quando si parla di tecnologie in una logica di digital workplace, due sono le raccomandazioni da tener presenti: in primo luogo la necessità di adattare le tecnologie agli obiettivi di business, in secondo luogo fare in modo che i dipendenti e i collaboratori abbiano accesso agli strumenti di cui hanno bisogno in qualunque momento, esattamente come accade con le tecnologie che pervadono la loro vita privata. Le tecnologie devono essere la chiave che abilita dipendenti e collaboratori a fare di più e meglio, e non un ostacolo alla loro produttività.
Quali tecnologie per il digital workplace?
Ma quali sono le leve tecnologiche che davvero servono in un digital workplace? Possiamo prendere come riferimento uno schema sviluppato da Deloitte nella sua analisi “The digital workplace: Think, share, do. Transform your employee experience” nella quale si fa cenno a otto classi tecnologiche e agli obiettivi che dovrebbero spingere verso la sua adozione. Innanzitutto, troviamo gli strumenti di messaggistica, che aiutano i dipendenti a comunicare tra loro, seguiti dagli strumenti di produttività, di collaboration e quelli di communication, per poi passare alle business application, alla connettività e alla mobility – che rappresentano in qualche misura il layer infrastrutturale che abilita le nuove modalità operative -. Merita una riflessione in più l’inserimento nella lista degli strumenti crowdsourcing, che consentono alle imprese di raccogliere, attraverso strumenti come i sondaggi o i forum, idee e contributi da parte di dipendenti e collaboratori, utilissimi in un contesto dinamico come quello in cui ci si muove oggi.
Smart Working, la situazione in Italia
Secondo i dati più recenti dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, anche nel nostro Paese cresce il numero di persone che scelgono modalità di lavoro smart. Parliamo di una platea crescente, composta al momento da 480.000 addetti, pari al 12,6 % del totale degli occupati, ma parliamo anche di un sempre maggiore convincimento da parte delle imprese che questa sia la strada giusta da percorrere.
Nelle aziende di grandi dimensioni, una realtà su due ha avviato progetti strutturati, mentre nell’ambito delle piccole e medie imprese l’implementazione di progetti strutturati riguarda l’8 per cento del totale.
Secondo Mariano Corso, Direttore scientifico dell’Osservatorio, l’adozione di modelli di lavoro agile porta alle aziende benefici economici e sociali misurabili e tangibili: si tratta di un incremento di produttività del 15% per lavoratore, di una riduzione nell’ordine del 20% del tasso di assenteismo, di risparmi del 30% sui costi di gestione degli spazi fisici e addirittura di un miglioramento del work-life balance registrato per l’80% degli addetti.
In generale, gli impatti positivi si registrano in relazione al maggiore senso di responsabilizzazione dei dipendenti verso il raggiungimento degli obiettivi, alla migliore collaborazione e condivisione di informazioni, alla qualità del lavoro svolto, alla capacità di gestione delle urgenze e all’autonomia nello svolgimento delle attività lavorative.
Per questo motivo, secondo Mariano Corso, non è corretto affrontare lo Smart Working come un semplice progetto: il lavoro smart deve diventare un elemento strategico del tutto allineato con gli obiettivi di business aziendali.
Una squadra per il Digital Workplace
Da quanto abbiamo visto fin qui, è evidente che l’avvio di un progetto e di una strategia di Smart Working richiede il coinvolgimento di diverse figure professionali all’interno dell’azienda. Non è, e non può essere, una questione demandata al solo dipartimento IT e non può essere affrontata disgiuntamente da un processo di change management. Perché, va detto, è un cambiamento importante quello che si introduce in azienda.
Chi sono dunque le figure aziendali che devono essere coinvolte?
Fermo restando che non esiste una ricetta “per tutte le stagioni”, è evidente che è necessaria una forte sponsorship da parte del top management. L’Amministratore Delegato o il Direttore Generale devono dare il via, richiedendo un commitment a tutta l’azienda e stanziando il budget necessario a sostenere la nuova strategia.
La seconda figura che non può mancare e che anzi ha un ruolo chiave nel raggiungimento degli obiettivi e nel coinvolgimento di tutti gli stakeholder è il responsabile HR. Al responsabile delle risorse umane spetta il compito di definire le policy aziendali che regolano il lavoro smart, nel rispetto sia delle normative vigenti, sia delle linee guida e degli obiettivi aziendali.
In questa attività, l’HR potrà essere supportata dalla funzione di marketing, che avrà il compito di comunicare correttamente il cambiamento in corso, le motivazioni che lo guidano e gli obiettivi attesi.
Un ruolo importante spetta comunque anche alla funzione IT che avrà il compito di supportare la scelta e la successiva implementazione degli strumenti e dei layer tecnologici, tenendo conto non solo dei principi di usabilità e di ergonomia, ma anche delle problematiche di integrazione con le soluzioni aziendali esistenti.
Infine, è necessario istituire un team di operation, il cui compito è quello di gestire il progetto in tutte le fasi, segnalando eventuali criticità e garantendo il rispetto dei tempi e degli obiettivi.
La visione di SoftJam
Sul tema Digital Workplace ha sviluppato una propria practice SoftJam, system integrator attivo sul mercato da 23 anni e da oltre dieci Gold Partner di Microsoft. Spiega Pierpaolo Manzini, Senior account manager della società: «Abbiamo denominato la nostra practice Journey to Digital Workplace, proprio per sottolineare come si tratti di una strategia e non di un tema prettamente tecnologico. È un percorso che ha come primo stakeholder il responsabile delle risorse umane che deve incidere sulle modalità operative dell’azienda, trovando il linguaggio e le motivazioni giuste per coinvolgere i dipendenti».
Nella visione di SoftJam, il Digital Workplace porta in sé numerosi vantaggi, a partire da un miglioramento delle comunicazioni interne, delle relazioni, della collaborazione: «Questo significa incidere sulle metodologie, sui linguaggi, sugli standard sui quali si regolano le comunicazioni».
Manzini sottolinea come in relazione alla normativa sul lavoro agile, alcune aziende si siano limitate a trovare il modo di applicare la legge senza lavorare sul change management, come è invece necessario.
«Trasformare la propria azienda in un digital workplace significa lavorare sull’experience e sugli strumenti, ma anche saper tenere conto di elementi quali la digital diversity, vale a dire le diverse competenze digitali presenti in azienda, o la diversa propensione alla collaboration e al team working. La nostra metodologia consente di lavorare proprio su tutti questi aspetti, introducendo anche meccanismi di scoring, dashboard, business games, e strumenti di supporto come i chatbot, con l’obiettivo di misurare l’efficacia dei cambiamenti introdotti, anche in una logica di soft benefit».