Nel momento storico in cui viviamo il tema della disoccupazione tecnologica è purtroppo all’ordine del giorno. La perdita di lavoro dovuta al cambiamento tecnologico non è tuttavia, come si potrebbe pensare, dovuta semplicemente all’introduzione dell’automazione che riduce il numero di operazioni che richiedono la presenza dell’uomo, ma a causarla è anche la mancanza di competenze specifiche, che rispondano alle rinnovate esigenze delle organizzazioni.
Le nuove tecnologie emerse dall’intelligenza artificiale hanno un potenziale immenso e possono avere ricadute positive per l’intera umanità, creando benessere e occupazione, ma offrendo anche nuove interessanti modalità di esplorare la maggior parte delle discipline accademiche.
D’altronde, se un’azienda tecnologica non è in grado di imparare dal lavoro innovativo svolto in ambito accademico, molto probabilmente non sarà altrettanto capace di assicurarsi una crescita sostenibile. Analogamente, senza finanziamenti pubblici e privati, le nuove invenzioni finirebbero col marcire in un laboratorio.
Risulta pertanto ovvia la necessità di una collaborazione tra industria e mondo accademico nel campo dell’intelligenza artificiale e delle altre tecnologie di frontiera, nonostante lo scetticismo di coloro i quali giudicano queste cooperazioni vantaggiose soltanto per le aziende e auspicano una ricerca condotta senza fini commerciali. In questo contesto, le autorità politiche mostrano minore preoccupazione nei confronti dei benefici commerciali poiché accolgono con favore la crescita economica e i posti di lavoro che derivano da operazioni commerciali di successo. Può tuttavia succedere che anch’esse facciano le loro obiezioni quando l’azienda in questione ha sede in un paese straniero.
Tale approccio a somma zero ricorda i timori espressi da alcuni politici statunitensi negli anni ’80 e ’90 davanti all’ascesa economica del Giappone. Nel libro Macchine predittive (2018), Ajay Agrawal racconta di quando, nel corso di un’audizione congressuale nel 1999, fu chiesto all’economista del MIT Scott Stern quale approccio avrebbero dovuto adottare gli Stati Uniti di fronte all’aumento degli investimenti in Ricerca & Sviluppo di Giappone e altre economie emergenti, suggerendo come questi Paesi potessero rappresentare una minaccia per la prosperità americana. “La prima cosa che dovremmo fare è mandar loro una lettera di ringraziamento”, rispose Stern. “Quella dell’innovazione non è una partita con vincitori e vinti, ci sono solo vincitori. I consumatori americani potrebbero solo beneficiare di ulteriori investimenti in innovazione da parte di altri Paesi”.
Nel nostro caso, Huawei non si aspetta alcuna lettera di ringraziamento. Tuttavia, il nostro messaggio sarà sempre chiaro: i Paesi hanno più da guadagnare che da temere da una sana concorrenza internazionale. Inserendo le aziende cinesi in una lista nera, le autorità politiche stanno limitando lo sviluppo di quei talenti fondamentali per la realizzazione di un futuro basato sull’intelligenza artificiale che possa beneficiare l’intera comunità.
Disoccupazione tecnologica: l’importanza di investire in ricerca e formazione
Pertanto, lo sviluppo dei talenti si conferma di cruciale importanza. Secondo uno studio condotto dalla Commissione Europea, potrebbero esserci oltre 750.000 posti vacanti nel settore ICT in Europa. Inoltre, un sondaggio realizzato da Ernst & Young nel 2018 ha rivelato che il 56% dei professionisti senior dell’AI ritiene che la mancanza di profili qualificati sia il principale ostacolo all’implementazione della stessa nei processi aziendali. Questo significa che sono le competenze, e non la tecnologia, la chiave per la crescita economica.
La soluzione sarà quindi migliorare le competenze delle risorse impiegate nel settore IT, anziché abbandonarle a loro stesse causando quella che Andy Haldane, Chief Economist presso la Bank of England, ha definito appunto ‘disoccupazione tecnologica’. Ma il talento è presente in ogni parte del mondo: per esempio, il 71% dei professionisti tech della Silicon Valley è di origine straniera. Alla luce di ciò, la collaborazione internazionale nell’ambito dell’AI dovrebbe essere la via più sensata da seguire. Ciò di cui abbiamo bisogno è una Silicon Valley globale, ossia una comunità internazionale di accademici, imprenditori, aziende e investitori desiderosi di lavorare insieme per coltivare i talenti e promuovere le idee più innovative.
Huawei ha lanciato un programma di formazione per sviluppatori, stanziando a supporto 1 miliardo di dollari, con l’obiettivo di colmare il crescente divario delle competenze digitali e la disoccupazione tecnologica. Collaboriamo con le università per pubblicare libri di testo e altro materiale didattico sul tema dell’AI, contribuiamo a realizzare laboratori dedicati, formiamo gli insegnanti e incoraggiamo gli atenei di tutto il mondo a unirsi alla comunità Cloud aperta di Huawei.
Non di minore importanza è la necessità di continuare a investire nella ricerca di base che in tutto il mondo è duramente messa alla prova, anche a causa della significativa diminuzione di finanziamenti pubblici. Se negli ultimi vent’anni l’innovazione di prodotto ha potuto contare su idee concepite all’interno del mondo accademico e successivamente sviluppate dall’industria per rispondere alle esigenze dei consumatori, in futuro si andrà alla ricerca di nuovi concetti teorici che determineranno queste esigenze nei prossimi 50 anni: il futuro Teorema di Shannon-Hartley o la futura Legge di Moore.
Nonostante le pressioni geopolitiche che aziende internazionali come Huawei si trovano oggi a dover affrontare, continueremo a investire nella ricerca congiunta con le università. Un impegno collettivo è l’unico modo per rispondere alle più grandi sfide contemporanee e a un futuro incerto. Non si tratta quindi di un gioco in cui il successo di qualcuno corrisponde necessariamente alla sconfitta di qualcun altro.