Attrarre i talenti migliori è una strategia che non si improvvisa e che richiede l’impegno dell’intera organizzazione: si tratta non solo di ricalibrare il modo di cercare e vagliare le risorse per i manager HR, ma in generale di adottare una nuova cultura aziendale del recruiting e delle operazioni di talent acquisition, rivedendo anche la comunicazione verso l’esterno. Ne abbiamo parlato con Silvia Zanella, Manager, esperta di futuro del lavoro, autrice di libri come “Digital Recruiter”, “Personal branding per l’azienda” e “Guida al lavoro”.
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A che punto sono le aziende italiane sulla talent acquisition?
Sono preparate su quello che riguarda il marketing dei loro prodotti o servizi per i clienti finali, ma tendono a ignorare l’importanza della comunicazione su che cosa fanno, anche dando la parola ai propri dipendenti e ai collaboratori. Le aziende devono spiegare bene chi sono e qual è la loro storia, descrivere il loro business, la cultura interna, i valori. Far sentire la voce dei loro manager e delle persone che lavorano al loro interno. E farlo in modo veritiero.
Oggi non è così?
Spesso il messaggio che comunicano non rispecchia la vera cultura e esperienza aziendale ed è un errore che può costare caro: nell’era del digitale che dà rapido accesso alle informazioni, tramite motori di ricerca online, siti web aziendali e reti sociali, è facile portare alla luce le “promesse non mantenute”. Serve una sorta di audit sulla comunicazione e sulla cultura aziendale.
Cambia anche il modo di lavorare dei dipartimenti HR?
I nuovi canali digitali portano a una modifica della cultura stessa delle Risorse Umane, anche con un cedimento dei rapporti di potere interni all’organizzazione. Ma cambiare modo di fare e di pensare è imperativo: le aziende fanno più fatica a conquistare i professionisti migliori, che sono scarsi e godono di maggiore visibilità grazie ai canali online. La talent acquisition è una gara con i competitor.
Occorre presentare ai talenti una proposta economica che li faccia sentire motivati e premiati, altrimenti fuggono verso le aziende concorrenti.
Certo. Se da un lato i lavoratori devono dimostrare di possedere le competenze richieste, sia hard che, soprattutto, soft, dall’altro lato le aziende devono saper attrarre i talenti con la giusta proposta. Ma non è solo questione di stipendio: i candidati scelgono sempre più spesso in base ai benefit.
Quali contano di più?
Quelli soft più di quelli hard. I benefici immateriali spesso contano di più dello stipendio perché riguardano il benessere delle persone (welfare/wellness), la possibilità di far convivere carriera e famiglia o vita privata in genere, le opzioni di smart working e gli strumenti di produttività digitale. I talenti danno grande valore a questo tipo di benefit e più l’azienda sa proporre quelli che interessano specificamente le sue risorse esistenti o potenziali, più sarà competitiva nell’attrarre e trattenere talenti. Ne ho parlato anche al mio primo Tedx, che si è tenuto a Milano alla Santeria a maggio. Il tema è stato l’etica di domani e ho raccontato quanto sia necessario iniziare a pensare al futuro del lavoro nei suoi aspetti più soft, perché saranno quelli che determineranno il nostro modo di lavorare e, in ultima istanza, le nostre vite.
Le aziende italiane sono pronte per questa sfida?
Secondo me le aziende sono spesso vittima di un malinteso: continuano a pensare con l’approccio top down credendo di essere loro a decidere chi assumere. Invece il mondo del recruiting e della talent acquisition è radicalmente cambiato e gli equilibri sono ribaltati: sono i candidati a scegliere attivamente dove vogliono andare a lavorare in base alle informazioni che reperiscono online e alla reputazione del brand. Per questo sono così importanti l’employee advocacy, il branding aziendale e anche il brand personale.
Nella employee advocacy i dipendenti esistenti diventano promotori dell’azienda per cui lavorano. L’azienda, però, si deve “fidare” di quello che dicono i suoi dipendenti
Fa parte delle regole del gioco: le aziende devono cedere parte del controllo sulla comunicazione verso l’esterno e lasciare che i dipendenti possano parlare della loro esperienza, su tutti i canali, offline e online. Nell’employee advocacy l’azienda dà spazio alle sue risorse offrendo loro una vetrina in cui posizionarsi come professionisti e al tempo stesso lasciando che promuovano l’azienda. Non si deve però cadere nell’errore di “imboccare” il dipendente: al di là di fornire alcune policy e linee guida, l’azienda deve permettere ai suoi talenti di esprimersi con le parole e i contenuti propri. L’autenticità è il requisito irrinunciabile. Anche il personal branding funziona così: in azienda ciascuno, dal Ceo allo stagista, può essere uno straordinario veicolo di promozione del marchio del datore di lavoro grazie al proprio brand personale, parlando in modo spontaneo dell’azienda per cui lavora e consentendo ai propri interlocutori a farsi un’idea di come l’azienda è veramente. Ma questa comunicazione deve essere coerente con il branding aziendale. I passi falsi, nell’era della connettività always-on e dei social media, si pagano cari, perché online tutti possono facilmente verificare le informazioni. Ma anche il ritorno positivo può essere enorme per le organizzazioni che lanciano un messaggio solido e univoco sia nelle modalità “istituzionali” che in quelle più innovative o “informali” .