Il benessere e il lavoro da remoto sono oggi al centro di ogni strategia aziendale che punta ad accrescere la propria competitività attraendo e trattenendo i migliori talenti . “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità”. Questa definizione di “salute” contenuta nella Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si lega perfettamente al concetto di “benessere organizzativo” sviluppato dal professore di psicologia del lavoro Francesco Avallone. “Il benessere organizzativo − scrive il professore − si riferisce alla capacità di un’organizzazione di promuovere e di mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori in ogni tipo di occupazione”. Proprio nell’ottica di individuare nuove strade e soluzioni tecnologiche a supporto del benessere in grado di conciliarlo con il lavoro da remoto, Oracle e Workplace Intelligence, società di consulenza e ricerca per le risorse umane, hanno realizzato uno studio per verificare l’impatto del Covid-19 sul benessere psicologico in ambito lavorativo.
La ricerca, che ha coinvolto oltre 12mila persone tra dipendenti, manager, leader delle risorse umane e alti dirigenti in 11 paesi del mondo − da Stati Uniti, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti, Francia, Italia, Germania, India, Giappone, Cina, Brasile e Corea a Italia compresa −, ha rilevato come la pandemia ha aumentato lo stress, l’ansia e il rischio di burnout sul posto di lavoro per le persone ovunque. Emerge, inoltre, che chi si trova difficoltà preferirebbe rivolgersi a “bot” potenziati dall’Intelligenza Artificiale, invece che ad altre persone.
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Ombre e luci del lavoro da remoto
Secondo la ricerca, il 62% delle persone intervistate nel mondo (il 59% dei lavoratori in Italia) trova il lavoro da remoto più interessante ora, rispetto a prima della pandemia, affermando di aver avuto più tempo da trascorrere con la famiglia (51%), per riposare (31%) e per portare a termine i propri compiti (30%). Tuttavia le persone in tutto il mondo stanno combattendo con gravi problemi legati al lavoro ai tempi del Covid-19:
- il 70% delle persone ha sentito più stanchezza e ansia sul lavoro quest’anno rispetto a qualsiasi altro anno precedente. Ciò ha prodotto un impatto negativo sul benessere psicologico del 78% della forza lavoro globale, causando in particolare più stress (38%), mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata (35%), burnout (25%), depressione da assenza di socializzazione (25%) e solitudine (14%);
- le nuove pressioni subite a causa della situazione globale si sono sovrapposte ai fattori di stress abituali legati al lavoro, tra cui la pressione per raggiungere i risultati (42%), la gestione di attività noiose e/o di routine (41%) e il fatto di dover affrontare carichi di lavoro sentiti come ingestibili (41%).
Inoltre, dato che i confini tra il mondo personale e quello professionale, con il lavoro da remoto, si sono sfocati, il 35% delle persone ha dichiarato di aver lavorato oltre 40 ore in più ogni mese e il 25% delle persone nel mondo dichiara di aver sperimentato un burnout per il super lavoro.
Anche i lavoratori italiani hanno dichiarato livelli di stress e ansia molto superiori, anche se in misura minore rispetto al risultato globale della ricerca. Il 62% ritiene infatti che questo è stato l’anno più stressante di sempre e il 65% dichiara di aver vissuto un impatto negativo sul proprio benessere psicologico.
Che cosa cercano le diverse generazioni?
Come sottolinea Alessandro Zollo, AD di Great Place to Work Italia, “ogni generazione necessita di accorgimenti mirati per ritrovare felicità e fiducia sul posto di lavoro”. Dai boomer, desiderosi nel 75% dei casi di un miglior work-life balance, alla X generation, che è a caccia di autonomia su lavoro e rispetto per le sue tempistiche, fino ai millennial, per cui contano fiducia e coinvolgimento, e gli Z worker che spingono per l’hybrid work: sono diverse le esigenze che di cui oggi si deve tenere conto quando si ha a che fare con le persone in aziende.
Ecco, quindi che Great Place to Work Italia individua 3 pilastri fondanti della felicità sul posto di lavoro di ogni generazione:
Boomer:
- Un miglior equilibrio tra vita privata e professionale;
- Benefit aziendali che preservino il mantenimento e il miglioramento del benessere psico-fisico;
- Smart Working: anche i boomer ritengono di essere più produttivi e a loro agio a lavorare da remoto.
Gen X:
- L’autonomia come parola e richiesta chiave per esprimersi al meglio;
- La comunicazione efficace risulta fondamentale per comprendere al meglio le mansioni da svolgere;
- Crescita professionale: i corsi di formazione sono sempre apprezzati dai singoli collaboratori per apprendere nuove skill operative.
Millennial:
- Coinvolgimento e motivazione: tratta di una generazione che necessita di essere continuamente coinvolta nei vari progetti aziendali per essere altamente efficace e produttiva;
- I rapporti interpersonali, costruiti in ambito professionale, devono essere fondati su fiducia e trasparenza;
- Opportunità di esprimere la propria opinione, positiva o negativa, in merito alle dinamiche aziendali.
Gen Z:
- L’hybrid work è il desiderio primario dei giovanissimi;
- La mission aziendale emerge come il fondamento grazie a cui preferire un’azienda invece di un’altra;
- La presenza di un mentore o di una figura professionale da cui prendere spunto e ispirazione come punto di gradimento ulteriore.
Come conciliare il benessere e il lavoro da remoto: sette consigli di Harvard
Uno studio recente della società globale di consulenza Gallup lancia un allarme: dopo aver raggiunto livelli record all’inizio della pandemia, la percentuale di lavoratori che credono che la propria azienda tenga al benessere organizzativo è precipitata ai livelli pre-Covid in tutti i tipi di lavoro, con solo il 24% dei lavoratori che concorda fermamente sul fatto che la propria organizzazione si preoccupa del proprio benessere. Il dato dovrebbe far preoccupare parecchio i leader aziendali visto che questi dipendenti hanno il 69% di probabilità in meno rispetto a tutti gli altri lavoratori di cercare un nuovo lavoro, il 71% in meno di probabilità riferire di aver sperimentato il burnout e cinque volte più probabilità di fungere da difensore della propria organizzazione.
Ecco dunque sette consigli per migliorare il benessere organizzativo pubblicati dall’Harvard Business Review: dare ai lavoratori un maggiore controllo su come svolgono il loro lavoro, anche cambiamenti relativamente piccoli nell’autonomia dei lavoratori possono fare la differenza nel benessere dei dipendenti; consentire ai dipendenti una maggiore flessibilità su quando e dove lavorano, sulla base dei diversi studi che hanno rilevato come dare ai lavoratori più scelta o controllo sui propri orari di lavoro migliora la loro salute mentale; aumentare la stabilità degli orari dei lavoratori, molte società di vendita al dettaglio e di servizi oggi utilizzano la pianificazione “just in time” per cercare di far corrispondere la manodopera alla domanda fluttuante, ma orari irregolari e imprevedibili rendono difficile per i lavoratori in prima linea gestire le proprie vite personali e le responsabilità familiari; fornire ai dipendenti l’opportunità di identificare e risolvere i problemi sul posto di lavoro può essere un approccio efficace per promuovere il loro benessere; mantenere il personale adeguato alla organizzazione in modo che i carichi di lavoro siano ragionevoli, elevate esigenze di lavoro, ad esempio lunghe ore di lavoro o la pressione per lavorare molto duramente o velocemente, possono avere un impatto sostanziale sulla salute e sul benessere dei dipendenti; incoraggiare i manager dell’organizzazione a supportare le esigenze personali dei dipendenti; infine adottare misure per promuovere un senso di appartenenza sociale tra i dipendenti e sviluppare relazioni con i colleghi può essere una strategia importante per aumentare il benessere dei lavoratori.
Le nuove frontiere del benessere: i dipendenti scelgono gli AI robot contro ansia e stress da lavoro
La mancanza di benessere al lavoro non compromette solo la vita professionale ma anche quella privata. Ne è convinto l’85% delle persone a livello mondiale coinvolte dallo studio di Oracle e Workplace Intelligence – e il 78% degli italiani – che pensa che i problemi di salute mentale e benessere psicofisico legati al lavoro (ad esempio stress, ansia e depressione) si riflettono su ogni aspetto del quotidiano. Le ripercussioni più comuni riportate a livello globale sono state: privazione del sonno (40%), cattiva salute fisica (35%), riduzione della serenità domestica (33%), sofferenza nei rapporti familiari (30%) e isolamento dagli amici (28%). Per tali ragioni i lavoratori di tutto il mondo (il 76% del campione globale, e il 66% degli italiani) vorrebbero che le loro aziende offrissero più supporto per la salute mentale.
Le conseguenze della crescita di ansia e stress da lavoro ha portato i ricercatori a interrogarsi su quali potessero essere gli strumenti tecnologici in grado di supportare il benessere organizzativo. Lo studio ha così rilevato che l’83% della forza lavoro globale vorrebbe che la propria azienda fornisse tecnologia per supportare il benessere psicofisico e la salute, come ad esempio servizi di accesso self-service alle risorse sanitarie (36%), servizi di consulenza su richiesta (35%), strumenti proattivi di monitoraggio della salute (35%), l’accesso ad app per il benessere o la meditazione (35%) e chatbot per rispondere velocemente a domande relative alla salute (28%). Ed è qui che emerge l’aspetto più interessante dell’analisi sul benessere lavorativo nel post pandemia svolta da Oracle e Workplace Intelligence: il 68% delle persone interpellate a livello globale – e il 57% degli italiani, in particolare – preferirebbe parlare con un robot piuttosto che con il proprio manager dello stress e dell’ansia da lavoro e l’80% delle persone (71% per l’Italia) è aperta all’idea di utilizzarlo come consulente o terapeuta. Questo perché le persone ritengono che un’Intelligenza Artificiale possa creare una “free zone”, una “zona priva di giudizio” (34%), che possa essere un interlocutore imparziale (30%) e che possa fornire risposte rapide su domande specifiche relative alla propria salute mentale (29%).