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Tutela lavoratori e Smart Working: è tempo di fare “switch off”? I nodi da sciogliere, compreso il diritto alla disconnessione

Sulla base dell’attuale regolamentazione prevista dal nostro ordinamento per il lavoro da remoto, si può davvero ritenere che sia un bene per il lavoratore che la sua abitazione abbia ormai anche assunto il connotato di “sede di lavoro”? Il punto degli esperti, che tracciano i limiti di un modello che può causare uno sbilanciamento tra la popolazione aziendale

Pubblicato il 22 Nov 2021

Francesca De Novellis

Lawyer Employment, Studio Legale DLA Piper Italia

Fabrizio Morelli

Partner Employment, Studio Legale DLA Piper Italia

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Scorrendo le testate dei giornali e, stando alle notizie che giungono dagli altri Paesi europei, la parola “fine” alla pandemia da Covid-19 sembra a oggi ancora una volta, purtroppo, rimandata. E, così, alle porte della stagione invernale 2021, va rimesso in discussione quello che sembrava un imminente ritorno alla normalità. Soprattutto nel mondo del lavoro e nel relativo contesto dello Smart Working devono essere tenuti in considerazione una serie di aspetti pratici e tutela sia lato azienda sia lato lavoratori: dalla protezione e riservatezza dei dati al “diritto alla disconnessione” e alla creazione di nuovi modelli di leadership.

Che, poi, a prescindere dall’evolversi della persistente situazione pandemica, un pieno rientro al lavoro “in presenza” fosse, in qualche modo, comunque da escludere c’era da aspettarselo. La nuova modalità di lavoro “ibrida”, mai sperimentata in via massiva prima del mese di marzo 2020, ha preso piede e, considerando i repentini sviluppi dell’evoluzione tecnologica cui anche il mondo del lavoro sembra aver ceduto il passo, difficilmente si potrà fare marcia indietro. Una nuova “lex loci laboris” (laddove per “loci” debba intendersi più specificamente “sede di lavoro”, la cui indicazione è, allo stato, espressamente richiesta nei contratti di lavoro soggetti alla giurisdizione italiana) si è – nei fatti – prepotentemente insediata nel mercato del lavoro e occorrerà quanto prima fare un regolamento dei conti con i rispettivi ordinamenti di appartenenza.

Secondo dati Eurostat, di recente pubblicati nell’ambito di un rapporto svolto da Anitec-Assinform (Associazione Italiana per l’Information and Communication Technology, ICT) nel 2019, in Italia il 95,4% dei lavoratori non aveva mai lavorato da casa (a fronte dell’87,4% in Germania, del 77,2% in Francia e dell’85,0% nella media dell’Eurozona). Nel 2020 queste percentuali sono notevolmente cambiate: due imprese su tre hanno fatto ricorso allo Smart Working, che ha coinvolto quasi il 40% dei dipendenti (nei servizi: il 73,4%; nell’industria: il 64,2%).

Tutela dei lavoratori e Smart Working: che cosa non funziona ancora?

E ciò, con soddisfazione da parte di tutti (Governo incluso), anche alla luce di un incremento della digitalizzazione ad ampio spettro. Tuttavia, a oggi, pur perdurando lo stato di emergenza, non possono essere più sottovalutate e sottaciute una serie di implicazioni pratiche sia lato azienda che lato dipendente. Sulla base dell’attuale regolamentazione prevista dal nostro ordinamento per il lavoro da remoto, si può davvero ritenere che sia un bene assoluto per il lavoratore non “staccare mai”, avendo la propria abitazione ormai anche assunto nei fatti il connotato di “sede di lavoro” (e ciò anche non rispondendo esattamente a quanto previsto, rispettivamente nelle due diverse declinazioni Smart Working e telelavoro)? Sicuramente – come si è ampiamente evidenziato – l’esperienza in atto offre opportunità per garantire ai lavoratori una piena conciliazione vita/lavoro e alle imprese per conseguire maggiori ritorni in termini di produttività.

Ma quali sono i limiti sino a oggi riscontrati? Per rispondere a questa domanda, si deve innanzitutto pensare a limiti di tipo soggettivo relativamente ai possibili destinatari di proposte di lavoro da remoto: non tutti i lavoratori – per la natura stessa delle attività svolta dalle rispettive aziende sia nell’ambito delle proprie mansioni – possono, infatti, usufruire di questa modalità di lavoro “agevolata”. Il che crea un effettivo sbilanciamento delle diverse situazioni di diritto tra la popolazione aziendale e rischia di porre in essere e/o addirittura incrementare disuguaglianze sociali. Nel contesto di applicazione soggettiva, si possono peraltro venire ad accentuare disuguaglianze di reddito o, ragionando al contrario, bassi livelli di produttività e performance potrebbero conseguire a vere e proprie scarse opportunità di “remotizzazione”. A ciò si aggiunga la posizione dei lavoratori con disabilità, la cui inclusione tra gli “smart worker” dovrebbe essere comunque – per principio – assicurata, con tutte le garanzie del caso in relazione alla tutela della propria salute e sicurezza. Stesso discorso, per le pari opportunità, in favore delle donne lavoratrici.

Da un punto di vista oggettivo, si è riscontrata l’insufficienza (in termini legali) dell’attuale strumento contrattuale dello Smart Working. Basti solo pensare alla protezione e riservatezza dei dati (la c.d. cybersecurity) sulla quale, a oggi, si è forse chiuso qualche occhio in modo da garantire una pronta continuità aziendale; così come anche la necessità di definire e rafforzare le norme in materia di salute e sicurezza (come noto, più stringenti nei casi di telelavoro piuttosto che in quelli di Smart Working).

Per quanto concerne l’implementazione pratica, vanno poi valutate eventuali carenze di infrastrutture e bassi livelli di alfabetizzazione digitale (cui le aziende devono porre necessariamente rimedio attraverso investimenti in formazione, consegna di dotazioni portatili e tecnologie abilitanti il lavoro agile) oltre all’impatto psicologico derivante dall’isolamento generato con conseguente garanzia nella continuità della socialità e alla contestuale creazione di nuovi modelli di leadership. Non va poi dimenticato che dalla concreta sede di lavoro e di unità di appartenenza di ciascun lavoratore dipendono un’altra serie di norme (non da meno, tra tutte, quelle che definiscono il requisito dimensionale aziendale determinante ai fini della normativa sui licenziamenti individuali e collettivi). Andrebbe, pertanto, anche rivisto il concetto di “unità produttiva” così come, alla lunga, anche la tipica nozione di subordinazione con i rispettivi indici individuati negli anni dalla giurisprudenza (basti solo pensare che l’utilizzo di una postazione aziendale così come del badge sono annoverati, inter alia, tra gli elementi qualificanti la subordinazione). Senza contare che, a dirla tutta, considerata anche la riorganizzazione degli spazi e la dismissione degli uffici, gli stipendi dovranno anche poter essere concordati sulla base del costo della vita e sulle nuove modalità operative.

È evidente che lo Smart Working è solo un tassello della più complessiva rivoluzione tecnologica del mercato del lavoro, tuttora in corso. Difficilmente, però, le conquiste decennali nell’ambito delle relazioni industriali a favore della “collettività” (e dei diritti collettivi) potranno essere cancellate con un colpo di spugna, sponsorizzando la centralità dell’individuo a discapito della figura del lavoratore, come interfaccia non solo del proprio datore di lavoro ma anche di colleghi, organizzazioni sindacali etc. E di questo il legislatore ne dovrà tenere debito conto.

Diritto alla disconnessione: un tema più attuale che mai

Quando si parla della tutela dei lavoratori in Smart Working, valutazione a parte merita poi il tanto invocato “diritto alla disconnessione” anche alla luce della Risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione. Pur restando ferme alcune posizioni di dubbio rispetto all’utilità delle disposizioni in materia (il nostro ordinamento rende già, di fatto, non giuridicamente esigibile una prestazione richiesta al di fuori dell’orario di lavoro e non prevista dagli accordi contrattuali), va comunque precisato che – in un panorama europeo che introduce normative ad hoc (basti solo pensare alla recentissima iniziativa intrapresa dal Portogallo) – uno specifico diritto alla disconnessione è già previsto anche in Italia sia dal D.Lgs. 81/2017 che dalla più recente Legge 61/2021.

Con l’auspicio che tale diritto venga esteso a tutte le categorie di lavoratori (non solo gli Smart Worker), occorre ad ogni modo evidenziare che – in un contesto di “vita digitalmente interconnessa” – la competenza alla disconnessione riguarda l’azione aziendale tanto quanto l’azione dell’individuo in sé: il datore di lavoro sa già di non poter contattare il lavoratore al di fuori dell’orario lavorativo, garantendo altresì il rispetto del diritto alla disconnessione. Il dipendente, dal canto suo, ha tempo e intenzione di fare switch off?

Piuttosto che concentrarsi esclusivamente in ambito lavorativo, si dovrà semmai pensare di spostare la sfida al campo culturale e formativo, inserendo percorsi di “netiquette” che sostengano tutti gli interlocutori del network a spegnere l’interruttore e disconnettersi dal mondo virtuale per concentrarsi, almeno per un po’, su quello reale.

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