La battaglia di opinioni sulla possibilità di lavorare senza bisogno di un ufficio arriva a toccare le prime linee delle aziende. Persino i CEO.
Questione antica, ma sempre attuale. Anzi, sembra esserlo diventato di più negli ultimi tempi, soprattutto dopo che – a febbraio – il capo di Yahoo, Merissa Mayer, ha messo al bando il telelavoro. L’ha additato come causa primaria della loro perdita di produttività. A marzo Best Buy ha seguito questa scia, decidendo di diminuire il tasso di telelavoro.
Ma più di recente, ad aprile, Jack Dorsey si è espresso in senso opposto: “non ho un ufficio. Non ho una scrivania”, ha detto il fondatore di Twitter, uno dei più noti imprenditori del web. Gli ha subito fatto coro il fondatore di Virgin, Richard Branson: “ho sempre lavorato fuori dall’ufficio. Fra 30 anni, quando la tecnologia sarà ancora più evoluta, ci chiederemo persino perché mai sono esistiti gli uffici”. “Ho sempre detto che il telelavoro è una delle idee più stupide mai sentite”, ha detto invece, negli stessi giorni, il sindaco di New York Michael Bloomberg, mettendola sulla importanza dei rapporti personali.
Le opinioni dei leader sono spaccate in due, insomma, e la questione è tutt’altro che risolta; ma i numeri sembrano dirci, almeno, che la tendenza è sempre più a favore del telelavoro e, in genere, del lavoro fatto lontano dalle sedi fisiche delle aziende.
Gli studi internazionali
È di aprile, per esempio, uno studio di IDC su 812 aziende americane (meno di mille dipendenti): ad avere avuto un aumento di almeno il 10 per cento nei ricavi, nell’ultimo anno, sono state soprattutto quelle favorevoli al telelavoro. Secondo IDC, inoltre, sono appunto le PMI a beneficiarne di più. Lo studio però non ha identificato una relazione causale tra telelavoro e aumento di ricavi; Ray Boggs, analista di IDC, si limita a ipotizzare che questa pratica migliora la produttività del dipendente perché alimenta il rapporto di fiducia con l’azienda. Va anche detto che per lo studio di IDC è sufficiente permettere il telelavoro almeno tre volte al mese per finire contati nel mucchio delle aziende favorevoli a questa pratica. È una frequenza da telelavoro occasionale, insomma, non tale forse da incidere fortemente sulla produttività individuale.
Stessa considerazione per uno storico e noto studio di Forrester (del 2009), secondo cui già allora 34 milioni di americani lavorava da casa “almeno occasionalmente”. E passeranno a 63 milioni nel 2016, pari al 43 per cento della forza lavoro USA. Ma occasionalmente significa “meno di una volta alla settimana”; mentre sono molti di meno i “telelavoratori consueti” (1-4 volte a settimana).
Poter lavorare da casa quando c’è la neve o si è influenzati, una volta ogni tanto, in condizioni eccezionali, forse non è né una rivoluzione né qualcosa che cambierà gli equilibri nella produttività aziendale.
Uno studio più recente di Forrester (fine 2012) riguarda solo i lavoratori di concetto e dice che il 17 per cento di loro lavora da casa almeno due giorni a settimana; quota però che scende all’8 per cento in Francia e Giappone, contro il 19 per cento del Canada. «Nelle economie avanzate, essere un telelavorare consueto- almeno due giorni a settimana- resta relativamente raro», conclude JP Gownder, analista di Forrester Research.
«La policy adottata da Mayer non è quindi né rara né inusuale. I dati dicono che i dipendenti di Yahoo! hanno bassi livelli di produttività e forse l’attuale sistema manageriale non è in grado di gestire bene il lavoro da casa», continua. «E’ possibile che la tecnologia consentirà sempre più un telelavoro efficace.
E la maggior parte delle aziende dovranno sviluppare pratiche, policy e competenze per gestire al meglio il lavoro lontano dagli uffici». Non solo a casa, ma anche in mobilità: è la logica dello smart working, secondo gli Osservatori della School of Management del Politecnico di Milano e sta portando benefici alle aziende che la adottano.
Allora il telelavoro ha senso se inserito nel più ampio concetto di smart working, che ha il vantaggio di essere più intelligente e più adattabile rispetto agli schemi tradizionali.
Il concetto di cloud working
È figlio di questo stesso fenomeno il recente boom del cloud working, dove professionisti di vari settori lavorano come freelance attraverso piattaforme web quali l’americana Elance.com e la tedesca Twago (che è la più popolare in Italia).
Secondo McKinsey, tra due anni il 90 per cento delle aziende Usa farà ricorso a queste piattaforme, a cui parteciperà ben il 30 per cento della forza lavoro. E’ italiano un quarto dei 50,3 milioni di progetti di lavoro pubblicati su Twago dal 2010 al 2012. Le piattaforme intermediano prestazioni singole che l’azienda richiede e il professionista è in grado di fornire.
In questo caso, quindi, il lavoro è naturalmente fuori dalle sedi dell’azienda, visto che si tratta di collaboratori occasionali (magari anche in diversi Paesi) e non di dipendenti.
Ma la crescita del cloudworking- spingendo verso la destrutturazione del rapporto professionale classico, dove la vicinanza fisica ha un ruolo importante- comunque conferma che il lavoro, nelle nostre società, tende sempre più a esercitarsi a prescindere dai luoghi fisici.
È l’ulteriore evoluzione di quel fenomeno della “società liquida”, della separazione tra luoghi fisici-geografici e luoghi di produzione, secondo le categorie del noto sociologo Zygmunt Bauman. E questa tendenza, così estesa e permeante, non può che impattare su tutte le figure aziendali; non solo sui collaboratori.