Un tempo i capi dovevano dare indicazioni chiare sui compiti da svolgere, e controllare come questi venivano eseguiti. Un tempo per motivare le persone le aziende puntavano sulla stabilità e su forme di tutela. Un tempo l’operato di un’azienda aveva impatti sociali limitati sul territorio in cui operava. Oggi, nell’era della digital disruption, tutte queste certezze sono crollate. Digital4Executive ne ha parlato in esclusiva con Ian Williamson, uno dei più autorevoli studiosi di Organizational Behavior e People Management, professore di Leadership alla Melbourne Business School in Australia, nonché relatore al World Business Forum 2018 di Milano.
Indice degli argomenti
L’automazione, le piattaforme digitali e l’innovazione stanno trasformando la natura stessa del lavoro. Le persone ne hanno paura. Che tipo di leadership occorre in un tale contesto?
Nell’approccio tradizionale, si ritiene che un buon leader debba saper fare tre cose: spiegare alle persone tutto quello che è necessario fare e come esattamente farlo; valutare e monitorare come le persone realizzano questi compiti; e premiarle (o punirle) in base ai risultati ottenuti.
Questo approccio alla leadership può essere molto efficace, ma presuppone che i leader sappiano cosa deve essere fatto e lo abbiano già visto fare, o lo abbiano fatto essi stessi. Purtroppo sono due ipotesi che in molti casi non corrispondono più alla realtà. In un periodo di disruption come quello che stiamo vivendo, spesso non è chiaro ciò che deve essere fatto, e comunque si tratta di azioni e attività che nessuno ha già svolto in passato. In queste situazioni la leadership non può essere esercitata fornendo indicazioni chiare, ma creando le migliori condizioni affinché le persone possano sperimentare, riflettere e consolidare gli insegnamenti appresi dall’esperienza.
In questo contesto, insomma, i leader devono fornire una visione, e non istruzioni precise. Devono assegnare le risorse necessarie, e non fare valutazioni. E soprattutto devono creare situazioni in cui i dipendenti siano soddisfatti del fatto di fare il loro lavoro, e non solamente dei risultati ottenuti.
Cosa è più importante, in un contesto in continua evoluzione, per attrarre e fidelizzare i talenti? Cosa si aspettano davvero le nuove generazioni da un’organizzazione?
In passato i datori di lavoro attraevano i talenti fornendo forme diverse di tutele o di stabilità. Alla generazione precedente interessava molto, ad esempio, ottenere buoni programmi pensionistici. Oggi però le organizzazioni sono meno in grado di garantire stabilità. La buona notizia è che è meno probabile che i dipendenti ormai si aspettino stabilità dai datori di lavoro. Piuttosto sono attratti dalla vision dell’organizzazione. Le domande che fanno riguardano l’opportunità di lavorare a progetti fortemente innovativi, o che trasformano l’ambiente in cui lavorano; a loro interessa se saranno trattati in modo giusto ed equo, e se l’azienda sarà in grado di valorizzare i frutti dei loro sforzi se avranno successo. Sono queste le aspettative delle nuove generazioni.
Che consiglio darebbe ai responsabili HR in Italia, considerando che in Italia il mercato del lavoro non è molto flessibile?
Spesso i manager si lamentano che gli accordi sindacali o le normative limitano la loro capacità di gestire efficacemente la forza lavoro. In particolare, i manager sono spesso frustrati dal non poter apportare modifiche formali nei contratti dei dipendenti o dal non poter sollevare le persone dall’incarico se sono inadeguate.
Un modo per superare questi ostacoli è riconoscere l’importanza dei benefit intrinseci e sociali come mezzi per motivare i dipendenti. Con benefit intrinseci intendo i riconoscimenti che le persone ricevono dallo svolgere un compito specifico, mentre con benefit sociali intendo le interazioni sociali positive che le persone ricevono grazie al loro lavoro. Entrambe le ricompense possono essere un modo molto efficace per migliorare la motivazione e le prestazioni dei dipendenti in contesti vincolati, e su queste i manager hanno una grande influenza. Ad esempio, i leader possono offrire ai talenti l’opportunità di cimentarsi in diversi tipi di attività per trovare quella che massimizza i benefit intrinseci. Per migliorare i vantaggi sociali, invece, possono creare situazioni di lavoro in team.
I suoi studi si sono concentrati anche sulla ricerca e assunzione dei talenti da parte delle piccole imprese. Cosa suggerisce alle PMI italiane, che affrontano la competizione su scala globale?
Le piccole imprese sono in genere in svantaggio nel recruitment di talenti rispetto alle grandi, perché mancano del riconoscimento del brand e non sono considerate attrattive e ricche di opportunità di crescita e carriera come le grandi realtà globali. La mia ricerca ha evidenziato che per superare queste barriere le piccole imprese possono adottare una duplice strategia, che consiste nel far proprie alcune modalità tipiche delle best practice delle grandi imprese, evidenziando al contempo le caratteristiche peculiari della propria realtà specifica.
Per esempio possono utilizzare job title e descrizioni di ruoli analoghi a quelli utilizzati dalle grandi imprese. Ciò può trasmettere un senso di legittimità ai potenziali dipendenti e più fiducia sul tipo di lavoro che saranno chiamati a svolgere. Tuttavia, le piccole imprese devono anche distinguersi, sviluppando magari una politica inclusiva, che coinvolge i dipendenti nella definizione delle attività aziendali, oppure investendo notevolmente nella creazione di momenti che favoriscono le interazioni fra le persone dell’organizzazione. Sono due situazioni più difficili da creare nelle grandi aziende. È questo equilibrio fra l’essere al contempo simili e diverse alle grandi aziende che può aiutare le imprese più piccole ad attrarre e mantenere i migliori talenti.
Lei sostiene che il talent management ha un impatto non solo sull’organizzazione, ma anche sulle comunità. Può fare qualche esempio?
Il più grande problema che ogni organizzazione dovrà affrontare in futuro non è la concorrenza di altre imprese, ma le criticità sociali presenti nella comunità e nell’ambiente in cui tale organizzazione opera. Se questa comunità è caratterizzata da scarsa istruzione, scarsa assistenza sanitaria o alti livelli di violenza, difficilmente l’organizzazione riuscirà a essere profittevole, indipendentemente da quanto siano validi i suoi prodotti o servizi.
Perciò le aziende lungimiranti stanno iniziando a capire che la loro value proposition potrà crescere solo se crescerà quella della comunità in cui si trovano ad operare. In questa logica, le aziende devono sforzarsi di capire come le loro business practice possano essere utilizzate per risolvere le questioni sociali più critiche delle loro comunità di riferimento. Ad esempio, invece di limitarsi a fare donazioni, un’azienda di retail potrebbe collaborare con una scuola superiore locale per introdurre corsi di formazione di competenze di vendita nel programma scolastico, dando ai giovani un’opportunità immediata di entraa nel mondo del lavoro. Nel lungo termine, questo creerebbe un serbatoio di talenti per l’azienda, e allo stesso tempo contribuirebbe a innalzare il livello di istruzione e di competenze dei membri della comunità.