L’Italia oggi è un Paese molto difficile in cui muoversi per le università e le aziende interessate ad attrarre studenti e professionisti competenti e brillanti, e a convincerli a rimanere nel nostro Paese a studiare o lavorare. I fattori negativi ormai sono tali che la notoria qualità della vita in Italia da sola non riesce più a controbilanciarli, e in attesa di interventi strutturali l’unica via è ricorrere a politiche di valutazione, valorizzazione e sviluppo basate su best practice tipiche delle organizzazioni abituate a operare in un contesto internazionale.
Questo in estrema sintesi il responso dell’incontro-dibattito ‘Valorizzare e attrarre i talenti: una sfida per l’Italia’, organizzato dal MIP-Politecnico di Milano in partnership con Procter & Gamble, e a cui hanno partecipato il presidente del MIP Gianluca Spina, e alcuni manager di primo piano nell’ambito della gestione delle risorse umane come Filippo Passerini (Group President Global Business Services & Chief information Officer di P&G), Pietro Guindani (Presidente di Vodafone Italia), Andrea Colombo (Group HR Director di Fincantieri), e Giorgio Colombo (Direttore Personale e Organizzazione di Edison), moderati da Enzo Riboni, giornalista del Corriere della Sera-Lavoro.
Disoccupazione e fuga all’estero: i dati
Proprio Riboni ha aperto il dibattito con una serie di dati singolarmente già noti ma utili per dare una visione d’insieme dello scenario. In Italia i disoccupati nella fascia 15-24 anni a fine 2012 erano il 36,6% (+4,9% rispetto all’anno scorso, dato Istat), e i NEET (not in education, employment or training) erano 2,11 milioni, cioè il 22,1% della fascia 15-29 anni, contro il 10,7% in UK e il 14,6% in Francia (dati Eurofond), con un costo per la collettività valutato in 26,6 miliardi di euro: l’1,7% del PIL italiano. «Inoltre nell’anno accademico 2011/12 gli immatricolati sono calati del 17% rispetto a 8 anni prima, mentre i laureati nella fascia 30-34 anni sono il 19%, contro una media europea del 30% (dato OCSE), e infine secondo Istud i neolaureati che vorrebbero lavorare all’estero sono il 46% (l’8% in più di un anno fa) e il 61% pensa che nella vita avrà una posizione sociale inferiore rispetto ai propri genitori», ha detto Riboni.
Un quadro che qualitativamente è confermato da Passerini di P&G: «Da 25 anni lavoro all’estero e giro il mondo continuamente: mi sono fatto l’idea che in Italia il talento resta abbondante e la preparazione accademica molto buona. Gli skill che più servono oggi, innovazione e cambiamento, sono nel DNA degli italiani, ma il Sistema Paese manda ai giovani il messaggio che skill e competenze non bastano: per questo molti sono disposti ad andare all’estero, dove tra l’altro l’occupazione è meno tutelata da leggi e sindacati, pur di veder riconosciuti i loro meriti».
La tendenza alla ‘fuga all’estero’ è innegabile secondo Spina del MIP, che cita dati dell’AIRE (Associazione italiani residenti all’estero): «Negli ultimi anni gli espatri ‘ufficiali’ con intenzione di rimanere all’estero sono arrivati a oltre 30mila all’anno, ma quelli reali sono almeno il doppio: 60-80.000. La massima concentrazione è nella fascia 25-34 anni, con titolo di studio alto, e prevalentemente da regioni del Nord». Molti hanno sì un impiego, ma le molte prospettive di sviluppo all’estero sono migliori, e non è vero che siano in gran parte ricercatori e scienziati: prevalgono infatti ingegneri e laureati in economia. «Se i giovani brillanti scappano sistematicamente è un problema, soprattutto perché l’Italia ha anche una bassa capacità di riportarli a casa: sempre secondo dati AIRE, il 70% degli espatriati con un profilo di tecnico o scienziato non ha intenzione di rientrare, il 50% se consideriamo anche i manager».
«I percorsi di formazione siano realistici»
La maggior parte dei talenti italiani all’estero quindi non è propensa a tornare, ma l’Italia ha un problema generale di scarsa attrattività anche per i giovani talenti stranieri. Occorre insomma uno sforzo colossale per rilanciare l’immagine internazionale del Paese, ma da dove cominciare? Secondo Colombo di Edison, il punto di partenza dev’essere una politica industriale omogenea con tutti gli elementi di scenario odierni – politica, impresa, scuola, media -, e che definisca una conseguente gamma di percorsi di formazione realistici.
«Occorre capire quante e quali professionalità di alto livello oggi siano assorbibili dal nostro mercato del lavoro, e quali percorsi formativi siano più funzionali. In mancanza di questo nascono paradossi come il tasso di disoccupazione altissimo mentre ci sono molti posti vacanti nelle nostre imprese. Mancano corsi di laurea specialistici, e mancano le scuole di mestieri mentre il mercato ha bisogno di saldatori, addetti a macchine utensili, installatori, artigiani».
Molto simile il punto di vista di Passerini: «Ho vissuto in sei Paesi diversi – spiega – e ho notato che il circolo virtuoso di creazione del lavoro nasce sempre quando ci sono forti sinergie tra Stato, impresa e mondo accademico: Israele in questo è un modello fenomenale, è diventato il secondo Paese tecnologicamente più avanzato e ha tassi di disoccupazione minimi».
La sfida dell’estero: il caso Fincantieri
Nell’attesa dei cambiamenti strutturali necessari per il Sistema Italia, è particolarmente interessante capire quali politiche le singole aziende stiano attuando per attrarre, gestire e mantenere i talenti nella situazione attuale. Fincantieri per esempio è un ‘laboratorio’ significativo, essendo diventata una realtà internazionale solo dal 2009, tramite un’acquisizione negli USA.
«Oggi siamo un’azienda fortemente dinamica e in espansione all’estero, stiamo cambiando l’atteggiamento delle persone verso il lavoro, pur nel rispetto delle leggi italiane che sono molto rigide – spiega Andrea Colombo -. Puntiamo su un sistema di valutazione delle prestazioni che ci aiuti a ‘misurare’ le persone per quello che danno o che possono dare: i talenti si possono sviluppare, se sono motivati a cambiare, a imparare, ad adeguarsi a nuove condizioni. Inoltre stiamo internazionalizzando anche competenze e procedure, per l’acquisizione per esempio abbiamo dovuto assumere esperti in diritto e finanza internazionale che non avevamo. Un’altra esigenza è, con l’innalzamento dell’età pensionabile, di trovare i modi per motivare e mantenere i talenti fino a età avanzata, e di far convivere costruttivamente diverse generazioni.
Ma soprattutto abbiamo istituito un’attività periodica di assessment su tutte le persone, e di rotazione e crescita ‘forzata’, per evitare ‘blocchi’ e forzare promozioni e piani di successione, puntando soprattutto su quelli che chiamiamo ‘persone dei tre salti’, cioè giovani talentuosi che devono crescere in tempi brevi, molto inferiori a quelli classici di carriera italiani».
Questa politica nel 2012 ha portato a 140 trasferimenti, di cui più di 40 all’estero. «La sfida è convincerli: molti hanno famiglia e legami, e quindi occorre saper assicurare condizioni attraenti, ma questo vale a maggior ragione per i giovani, che si spostano più spontaneamente, ma vanno incentivati al ritorno con un vero e proprio piano di carriera».
P&G promuove gli interni, Edison il gruppo
Quanto a P&G, investe moltissimo in formazione e sviluppo delle carriere perché è una delle pochissime grandi multinazionali che privilegia fortemente la promozione interna: «In particolare per i livelli manageriali medi e alti non facciamo assunzioni all’esterno, e questo richiede un grande lavoro per avere sempre pronto un piano di successione per tutti i manager in questa fascia», spiega Passerini.
Edison invece punta per esempio sulla rapida eliminazione del ‘gap’ delle retribuzioni dei neoassunti. «Tutti i dati concordano: la retribuzione media del primo impiego stabile in Italia è del 20% più bassa che nel resto d’Europa, anche a causa del ‘cuneo fiscale’ che nel nostro Paese è particolarmente gravoso, e noi non facciamo eccezione, visto che assumiamo un neolaureato a 26mila euro; però i più meritevoli dopo soli tre anni sono già a 38-45mila euro, in linea con i maggiori Paesi europei».
In generale in Edison, come in altre aziende italiane, continua Colombo, i sistemi di valutazione e incentivazione mostrano un’evoluzione del modo di vedere il talento: «Prima si premiava l’individualismo, il mero ottenimento dei risultati, ora si sta passando a una logica di gruppo, dove il talento è al servizio degli altri, anche se sempre orientato ai risultati». La metafora migliore è quella del rugby, uno sport dove il successo passa sempre dalle mani del compagno: «Il talento deve saper mettere in condizione anche gli altri di arrivare al risultato, va premiato solo se è autorevole nell’ambito di un gruppo, e questo è omogeneo con il concetto di azienda come sistema complesso di interazioni a conoscenza diffusa».
Vodafone e la rotazione internazionale
Infine in Vodafone Italia la mentalità è di andare oltre il contesto italiano utilizzando strumenti molto concreti e mirati a livello multinazionale. «Il concetto di base è che la gestione dei talenti deve servire a motivare le persone allo sviluppo delle loro potenzialità per contribuire tutti alla creazione di valore, e a conciliare al meglio le proprie aspirazioni con le opportunità che nascono in azienda», spiega Guindani.
Questo si traduce tra l’altro in programmi per attrarre i talenti, come Discover (una sorta di master di un anno per studenti di qualità dalle migliori università, a cui viene data la possibilità di ruotare tra le varie funzioni e farsi rapidamente una visione d’insieme di come funziona un’azienda), e per sviluppare i talenti, tra cui quelli per favorire la rotazione internazionale. «Per esempio recentemente è stato introdotto un sistema di obiettivi espliciti di esportazione e importazione di persone di valore tra le varie filiali, anche per evitare ‘arroccamenti nazionali’; inoltre non si entra nel senior leadership team se non si è avuta un’esperienza internazionale significativa, cioè una posizione di responsabilità per un certo periodo».