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Great Resignation: come si evita la fuga dei dipendenti?

Nel secondo trimestre dell’anno, 484mila persone hanno dato la dimissioni, molte delle quali senza avere trovato una nuova occupazione. Perché è successo? Ma, soprattutto, come fare per evitare una Great Resignation a livello aziendale? Lo spiegano Enrico Ariotti e Christian Crotti di nCore HR

Pubblicato il 02 Dic 2021

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Negli Stati Uniti hanno coniato il termine Great Resignation per definire il fenomeno dell’enorme quantità di dimissioni che si sono verificate dopo la pandemia da Covid-19. A marzo di quest’anno è stato addirittura raggiunto il record degli ultimi 20 anni di storia americana.

Anche in Italia si stanno verificando le Great Resignation. I dati del Ministero del Lavoro relativi al secondo trimestre dell’anno indicano 2,5 milioni di contratti cessati: di questi 484mila sono dimissioni volontarie. Più in dettaglio, sono stati 292mila gli uomini che hanno deciso di abbandonare il vecchio lavoro e 191mila le donne. Un dato che si traduce in un aumento del 37% sul primo trimestre del 2021 e addirittura dell’85% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.

Si tratta di un fenomeno dovuto unicamente al fatto che la pandemia ha obbligato a ricorrere a nuove modalità di lavoro e di gestire la propria vita, e da cui molti non si vogliono staccare? Oppure è frutto delle opportunità create da un mercato del lavoro in ripresa? Lo abbiamo chiesto a due esperti del mercato del lavoro, Enrico Ariotti, Ceo e Co-fondatore di nCore HR, e Christian Crotti, Product Sales Manager della società nCore HR.

Smart working e incarichi più soddisfacenti

«È un fatto indiscusso che siamo di fronte a un fenomeno importante – sostiene Ariotti –. Un fenomeno che non riguarda solo le aziende che perdono dei dipendenti ma anche quelle che devono acquisirne di nuovi». Va infatti sottolineato che un rapporto di McKinsey ha rilevato che il 36% delle persone che ha lasciato il lavoro in Australia, Canada, Regno Unito, Singapore e Stati Uniti lo ha fatto senza averne già uno nuovo.

«Si tratta di persone che vogliono rimettersi in gioco – prosegue Ariotti – per le quali è molto importante la flessibilità del luogo di lavoro. Da diversi studi emerge che il lavoro da remoto ha avuto una grande influenza nelle decisioni di chi si è dimesso. Un altro elemento focale è stato il desiderio avere un incarico più mirato e soddisfacente».

Great Resignation, fenomeno prevenibile?

Evidentemente avere quasi 500.000 persone che hanno abbandonato spontaneamente il luogo di lavoro alla ricerca di qualcosa di differente è un segnale molto forte che non si era soddisfatti dell’occupazione che si aveva. Ma, in qualche modo, si poteva evitare di arrivare alle Great Resignation? Le aziende potevano agire in modo da prevenire il fenomeno o almeno di essere coscienti che sarebbe potuto accadere?

«Non c’è un elemento preciso che permetta di trattenere il talento o la persona che ha deciso di andare via – afferma Enrico Ariotti –, però con tutta una serie di attenzioni, e con l’aiuto della tecnologia, c’è modo di anticipare il trend. Un’attività che sempre più spesso viene svolta all’interno dell’organizzazione è quella del VOE (voice of employee). In pratica, si raccolgono informazioni direttamente dai dipendenti e questo permette di intercettare eventuali malumori o elementi migliorativi. Questo si collega poi con un altro tema importante, quello del job posting interno, quindi il fatto di avere visibilità e di poter eventualmente approfittare di affidare al dipendente un ruolo più mirato, che gli permetta di esprimere la sua personalità e quindi che sia decisamente più soddisfacente. Queste sono alcune iniziative che possono essere messe in atto per arginare il fenomeno».

Alle parole di Ariotti fanno eco quelle di Christian Crotti: «Il punto non è che le persone vadano via, questa è solo la conseguenza, l’inevitabile. E non è nemmeno il fatto che tutti fossero estremamente frustrati lavorativamente e, grazie al Covid, finalmente abbiano capito quali sono i valori della vita. Sicuramente fa parte della verità di una narrazione, però non è tutta la narrazione. Le aziende dovrebbero avere la capacità di capire che una volta assunto un dipendente non è finita lì e le preoccupazioni non si sono esaurite. Invece, in quel momento inizia un percorso che prevede di saper ascoltare il dipendente, guidarlo nelle prospettive, farlo sentire importante e che comunque il nuovo impiego può essere coerente con la felicità, le aspettative della vita di una persona. Insomma, di non fargli capire presto che la felicità sta da un’altra parte».

Il valore della soddisfazione del team

Più è grande l’azienda più è difficile aver cura per il singolo dipendente. «Si rischia di cadere nella logica che chiunque sia sostituibile – sottolinea Christian Crotti –, soprattutto se si svolge un compito che richiede limitate competenze e che quindi qualcun altro potrebbe fare. Un’altra cosa di cui spesso ci si dimentica è l’importanza che ha l’equilibrio di un team. Una persona che se ne va altera tale equilibrio e chi la sostituirà non potrà ripristinare la situazione precedente perché avrà caratteristiche e un carattere differenti. Questo cambierà le regole all’interno del team e in pochi mesi si potrebbero creare tensioni che poi possono comportare rallentamenti, quindi insoddisfazione, e infine il desiderio di andarsene. Questo meccanismo quando si innesca può diventare una reazione a catena e indurre più persone ad andarsene. Sottovalutare l’insoddisfazione del team può essere veramente costoso in termini di risorse e di tempo».

«Per evitare che ciò accada – aggiunge Enrico Ariotti – l’azienda dovrebbe prestare attenzione al dipendente, alle sue esigenze e alla sua crescita, attraverso una comunicazione continua. Una volta, questi aspetti sovente non venivano presi in considerazione. Oggi, invece, l’attenzione sul singolo deve essere costante, chiara e percepibile. Solo così si evita l’effetto a catena».

Cosa offrire a chi cerca lavoro

Gran parte dell’esercito di persone che ha lasciato volontariamente il vecchio lavoro cercherà una nuova occupazione. Tra queste persone ci sono sicuramente talenti che vale pena non lasciarsi sfuggire. Ma come fare perché non rifiutino l’offerta già durante il colloquio iniziale? «La retribuzione riveste sempre un ruolo importante, ma non è più il primo criterio di scelta – conclude Enrico Ariotti –. Oggi chi si presenta per un colloquio di lavoro vuole sapere anzitutto cosa offre globalmente l’azienda come inquadramento, quali sono le possibilità di formarsi e crescere, cosa può imparare. Una richiesta importante è che tipo di smart working gli è permesso di fare. Questo è un punto focale: bisogna prevedere una politica di smart working. Se non lo si fa si esclude a priori ogni possibilità che la gran parte dei talenti possa entrare a far parte della propria organizzazione».

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