Digital+People Evolution

Digital people analytics: dati sì, ma decodificati dal punto di vista umano

Gli HR devono essere digitali e analitici in quello che fanno e nelle competenze, siamo nell’era data driven. Ma in che modo i people analytics sono oggi al servizio della hr digital transformation? Ne abbiamo parlato con Elena Panzera, Senior HR Director EMEA South di SAS

Pubblicato il 25 Giu 2019

Laura Torretta

Advanced Professional Counselor, Counselor Organizzativa Sistemico Relazionale, Consulente di TrasFormAzione Positiva, Chief Happiness Officer, Operatrice di Scienza del sè e respiro consapevole

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Il ruolo dei people analytics. Sarà questo il tema della terza tappa di questo viaggio alla scoperta delle sinergie tra hardware tech e human soft! Cognizant ha recentemente pubblicato 21 nuovi mestieri technology centric che si svilupperanno nei prossimi 10 anni. Emerge il data detective che ricerca dati e produce consigli. Con l’augurio che possa fotografare le reti sociali informali e restare consigliere neutro in questa elaborazione sempre più complessa, al servizio di una crescita organizzativa e di mercato sostenibile. Oggi ascoltiamo la voce di Elena Panzera, Senior HR Director EMEA South in SAS.

In che senso i people analytics sono oggi al servizio della hr digital transformation?

In una frase i people analytics sono centrali nel supportare la trasformazione della funzione HR per permettere alle persone che vi operano di prendere decisioni basandosi sui dati. Chi si occupa di risorse umane deve trasformarsi ed evolvere continuamente, per giocare un ruolo da protagonista nel futuro delle organizzazioni accompagnando la trasformazione digitale dell’azienda. L’HR deve contribuire direttamente alla generazione di valore dell’azienda e alla soddisfazione del cliente finale, quindi, contribuire al business; utilizzare strumenti e tecniche sofisticate di marketing per assicurare una migliore personalizzazione dei servizi e per coinvolgere i dipendenti in tutto ciò che supporta e valorizza il brand; misurare dati per mettere in condizione il management di prendere decisioni consapevoli ed informate, su persone e organizzazione; essere project manager di iniziative di cambiamento, lavorando in modo snello e trasversale in team multifunzionali, perché la dimensione agile sta diventando sempre più concreta in azienda. Tutto questo è possibile e facilitato se si lavora in un’ottica data driven (basti pensare al caso Generali). In sintesi, gli HR sono chiamati ad essere digitali e analitici in quello che fanno e nelle competenze. Questo, però, mantenendo la distintività con la quale nasce e si sviluppa la professione: il dialogo, quindi ascoltare, percepire e comprendere. E poi sviluppare la capacità narrativa del dato, decodificandolo dal punto di vista umano.

Organigrammi e dati formali top down convivono oggi con l’emersione di big data informali bottom up. Un’opportunità o un problema per le direzioni hr?

Un’opportunità e una sfida senza ombra di dubbio. Quando parliamo di intelligenza artificiale e applicazione degli analytics all’HR, non ho mai avuto paura e mai ne avrò nè della riduzione del lavoro che l’uomo deve fare nè dell’automatizzazione della funzione HR. È un rischio che non corriamo, proprio perché l’integrazione con l’intelligenza artificiale arricchisce, cambia e fa crescere l’attenzione della persona che deve fare funzionare questi sistemi.

Come riuscire a garantire una predittività virtuosa che rispetti l’essere umano nella sua unicità e diversità? Come non interpretare il dato ma restare fedeli in rel-azione con le persone che li hanno espressi?

Secondo me la chiave di lettura per una liason tra intelligenza artificiale e umana sta però in alcuni termini: emulazione, riproduzione, da parte dell’AI e delle macchine, ma non sostituzione. È pur vero che i robot di moderna generazione stanno diventando sempre più antropomorfi, nella misura in cui aumenta la loro velocità, la precisione, la capacità di carico, addirittura il loro grado di autonomia. Ma se proprio di attività cognitive vogliamo parlare, dovremmo farlo in termini di una cognizione diversa da quella umana, scevra di due componenti essenziali: la consapevolezza e le emozioni. Non esistono ancora robot in grado di cucinare, robot maestri ed educatori, robot antropologi o psicologi, linguisti o giuristi, ecc… La dimensione sociale, che tra l’altro comprende anche un diffuso sottobosco di sensazioni, emotività e creatività, rappresenta un universo strettamente legato alla componente ambientale che nel caso dell’AI è presente solo in forma simbolica.

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