Nell’era dell’automazione uno dei termini più usati quando si parla di risorse umane è “reskilling”. Il mondo del lavoro sta affrontando un periodo di transizione che ne sta profondamente cambiando le logiche e che vede la nascita ciclica di nuove professioni, che richiedono competenze specifiche. Alle aziende non basta più semplicemente investire nel cambiamento, oggi occorre più che mai focalizzarsi anche sulle competenze necessarie per soddisfare le richieste di business.
La pandemia di Covid-19 e le conseguenze di un’economia volatile hanno accelerato i cambiamenti nelle modalità di investire sulla forza lavoro delle aziende a livello globale, secondo lo studio Global Talent Trends 2021 di Mercer (condotto su oltre 7.300 senior executive, direttori del personale e dipendenti di 44 Paesi). I responsabili del personale italiani hanno dimostrato di avere bene in mente la necessità di mappare le competenze e avviare progetti di reskilling e upskilling, che saranno fondamentali nel momento in cui i vincoli emergenziali verranno meno. Questo tipo di azioni e prioritario e urgente per il 48% degli intervistati. Ecco perché, alla luce del lavoro da remoto e vista l’esigenza di adeguare rapidamente le competenze nel 2020, i piani di trasformazione per il 2021 in Italia sono incentrati sulla reinvenzione del concetto di flessibilità in tutte le sue sfaccettature (39%), la promozione dei talenti e la “formazione continua” (58%) e lo sviluppo di un sistema di mappatura delle competenze (32%).
Come evidenzia poi il rapporto di McKinsey Global Institute “Jobs lost, jobs gained: Workforce transitions in a time of automation“, entro il 2030 ben 375 milioni di lavoratori, ovvero circa il 14% della forza lavoro globale, potrebbe aver bisogno di cambiare la sua categoria professionale, come conseguenza dei cambiamenti che digitalizzazione, automazione e progressi dell’intelligenza artificiale stanno portando nel mondo del lavoro. Il tipo di competenze richieste dalle aziende cambierà, con profonde implicazioni per i percorsi di carriera che gli individui dovranno perseguire. Ecco perché si parla di reskilling, intendendo il processo di apprendimento di nuove competenze in modo da poter svolgere un lavoro diverso o di formare le persone per svolgere un lavoro diverso.
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La sfida è riqualificare i lavoratori
McKinsey sottolinea che si tratta di una sfida simile, come ordine di gradezza, al passaggio fatto su larga scala dal lavoro agricolo alla produzione, avvenuto all’inizio del Ventesimo secolo in Nord America ed Europa, e più recentemente in Cina. Tuttavia, ci stiamo muovendo in un territorio inesplorato. Le precedenti trasformazioni della forza lavoro sono avvenute nel corso di molti decenni, consentendo ai lavoratori più anziani di ritirarsi e ai nuovi entranti di inserirsi in un contesto in crescita. Oggi la velocità del cambiamento non lo consente più. Il compito che dovrà affrontare ogni economia, in particolare quelle avanzate, sarà probabilmente quello di riqualificare e ridistribuire decine di milioni di lavoratori di mezza età e ancora in una fase intermedia di carriera.
Finora, la crescente consapevolezza della portata di questo fenomeno non si è ancora tradotta pienamente in azione. In effetti, la spesa pubblica per la formazione e il sostegno della forza lavoro sono diminuiti costantemente per anni nella maggior parte dei paesi membri dell’OCSE. Anche i budget per la formazione aziendale stentano a essere rivisti. Ma tutto questo potrebbe cambiare.
Secondo un sondaggio sempre di McKinsey condotto su 1.500 manager, del settore pubblico e privato, i dirigenti vedono sempre più gli investimenti nel reskilling e nell’upskilling dei lavoratori esistenti come una priorità aziendale urgente. Focalizzandosi sulle risposte di 300 manager di aziende con oltre cento milioni di dollari di ricavi annui, è emerso che colmare le potenziali carenze di competenze legate all’automazione / digitalizzazione all’interno della propria forza lavoro è una tra le prime dieci priorità da gestire per il 66%. Quasi il 30 percento la colloca tra i primi cinque. Il driver dietro questo senso di urgenza è il ritmo accelerato della trasformazione a livello aziendale. Guardando indietro negli ultimi cinque anni, solo circa un terzo dei dirigenti del sondaggio ha affermato che i cambiamenti tecnologici li hanno indotti a riqualificare o sostituire più di un quarto dei loro dipendenti. Ma quando guardano ai prossimi cinque anni, la loro idea cambia radicalmente.
Non solo priorità di business: il reskilling è un’opportunità anche per le persone
Come sottolinea il World Economic Forum (WEF) “abbiamo bisogno di una reskilling revolution”. Le tecnologie della Quarta Rivoluzione Industriale stanno creando nuove pressioni sui mercati del lavoro. Le riforme dell’istruzione, l’apprendimento permanente e le iniziative di riqualificazione saranno fondamentali per garantire, da un lato, agli individui l’accesso alle opportunità economiche rendendoli competitivi nel nuovo mondo del lavoro e, dall’altro, alle imprese di trovare i talenti di cui hanno bisogno per i lavori del futuro.
La Quarta Rivoluzione Industriale sta causando, infatti, un declino su larga scala di alcuni ruoli. Il rapporto Future of Jobs del 2018 prevedeva che entro il 2022 saranno sostituiti 75 milioni di posti di lavoro in 20 grandi economie. Allo stesso tempo, i progressi tecnologici e i nuovi modi di lavorare potrebbero anche creare 133 milioni di nuovi ruoli, guidati da una crescita su larga scala di nuovi prodotti e servizi che consentirebbe alle persone di lavorare con macchine e algoritmi.
Reskilling per 120 milioni di lavoratori nei prossimi 3 anni
E a proposito di formazione, come svela un recente sondaggio condotto da Ibm Institute for Business Value, l’impatto dell’intelligenza artificiale nel mondo del lavoro si traduce in una gigantesca sfida di formazione per le aziende: più di 120 milioni di lavoratori nelle dodici maggiori economie mondiali avranno bisogno di reskilling nei prossimi tre anni per effetto della diffusione dell’AI.
Il sondaggio, basato sulle risposte di oltre 5.600 top executive di 48 paesi, stima che 50,3 milioni di lavoratori in Cina avranno bisogno di retraining come effetto dell’automazione intelligente; negli Stati Uniti saranno 11,5 milioni, in Brasile 7,2 milioni, in Giappone 4,9 milioni e in Germania 2,9 milioni.
A preoccupare oggi le aziende è la carenza di talenti da assumere, in grado di gestire le nuove applicazioni basate su intelligenza artificiale e machine learning. Si trovano quindi, inevitabilmente, a dover fare i conti con un aggiornamento delle competenze delle persone già presenti in azienda. Attività che però risulta essere più impegnativa quando si tratta di AI: il sondaggio di Ibm sottolinea che in questo caso l’attività formativa è più lunga e complessa e che i lavoratori hanno bisogno di 36 giorni di training per colmare lo skill gap, contro i tre giorni quantificati nel 2014 per allineare le competenze.
Alcune skill richiedono più tempo per essere sviluppate perché sono o altamente tecniche, come le competenze nella scienza dei dati, oppure molto spostate in ambito comportamentale e relazionale: sono cioè delle “soft skill”, come la capacità di lavorare in team, la creatività e l’empatia.
Insegnare queste competenze è più difficile che formare su competenze tecniche: le soft skill di solito sono in parte innate e in parte apprese sul campo tramite l’esperienza; un corso o un webinar non bastano per apprenderle. La preoccupazione che emerge dal sondaggio è che le aziende pensano di aver bisogno di soft skill ancor più che di skill tecniche perché sono cruciali per affrontare il lavoro nell’era dell’automazione: in cima alla lista ci sono la disponibilità ad essere flessibili, agili e adattabili al cambiamento e la capacità di gestire il tempo e definire priorità.
La tecnologia in questo momento ha un ruolo ambivalente: se da un lato, infatti, ridisegna l’insieme delle competenze necessarie, dall’altro è un valido alleato per comprendere le reali necessità di skill delle aziende: ad esempio, le stesse applicazioni di intelligenza artificiale e analisi dei dati aiutano a definire le competenze e a disegnare percorsi formativi personalizzati per i dipendenti.