Per burnout si intende una condizione psicologica di intenso stress, riconoscibile attraverso diversi sintomi. Demotivazione, distacco emotivo, apatia o cinismo, difficoltà di concentrazione, irritabilità e nervosismo, ansia e preoccupazione costante, delusione e disinteresse verso il proprio lavoro: solitamente, i principali sintomi del burnout sono questi.
Nella vita professionale il burnout può essere individuato attraverso un decadimento delle risorse psicofisiche della persona e un peggioramento del rendimento lavorativo.
È estremamente importante determinare se si sta vivendo la condizione di burnout, considerando che, se trascurata, da un lato, può trasformarsi in depressione clinica che si può estendere a tutti gli ambiti della vita, e dall’altro può aumentare il rischio di problematiche mediche serie come fibrillazione atriale, diabete di tipo 2 e colesterolo alto (che a loro volta possono portare a malattie coronariche).
Il termine è comparso per la prima volta negli anni Settanta ed è stato coniato dallo psicologo americano Herbert Freudenberger, che identificava questa condizione soprattutto nell’ambito sanitario tra dottori e infermiere: queste professioni infatti erano strettamente connesse a stati psicologici come esaurimento, svogliatezza e incapacità di affrontare la giornata.
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L’effetto della pandemia sul burnout
Successivamente, e soprattutto grazie alla diffusione del termine in Europa, il fenomeno del burnout è stato riconosciuto a livello medico, ma anche ampliato a tutti gli altri generi di professioni.
Nel pre-Covid solitamente la situazione di burnout poteva essere causata da: maggiori responsabilità senza la compensazione adatta, conflitti sul lavoro, carenza di collaborazione e supporto reciproco, cambiamenti organizzativi e impossibilità di rispettare in toto la programmazione delle attività.
È stato osservato, però, che dal periodo della pandemia e del post-pandemia i lavoratori hanno iniziato a dare sempre più importanza al benessere psicologico e al wellbeing in azienda.
A settembre 2021, al fine di valutare bisogni e desiderata delle persone e di fare un’analisi dello stato psicologico dei lavoratori, BVA DOXA ha realizzato una ricerca su un campione di persone i cui risultati hanno dimostrato che:
- L’85% dei lavoratori considera il benessere psicologico generale correlato al benessere sul lavoro e viceversa
- Almeno l’80% ha provato almeno un sintomo correlato al burn out
- 1 under 34 su 2 presenta una maggiore propensione a lasciare il lavoro a causa di un malessere emotivo e psicologico ad esso correlato.
Inoltre, secondo la ricerca “Burnout among U.S. employees pre-COVID Jan. 2020 vs Feb. 2021, by generation”, la percentuale di lavoratori che presenta sintomi di burnout è aumentata esponenzialmente da gennaio 2020 a febbraio 2021, soprattutto nelle generazioni che vanno dalla Z (16-25 anni) alla X (40-55 anni).
Burnout, quali sono le cause dell’aumento?
Com’è possibile immaginare sono diverse le condizioni che hanno portato a una diffusione di questo fenomeno. Prima di tutto, la distanza dal luogo lavorativo (remote working), che ha causato demotivazione e disengagement. Inoltre, la preponderanza del digitale e i nuovi modelli organizzativi hanno sicuramente causato un primo spaesamento nelle persone, che si sono trovate ad affrontare cambiamenti improvvisi nel proprio metodo di lavoro e negli strumenti da utilizzare.
Inoltre, molti lavoratori non hanno avuto il tempo per adeguarsi al lavoro da remoto, il che ha portato in numerose situazioni a un sovraccarico di mansioni e di attività, all’impossibilità di “switching off”, ovvero di spegnere il PC e stabilire la fine della propria giornata lavorativa, e a percepire interferenze tra la vita lavorativa e la vita privata.
E non solo: il disingaggio, la perdita di legami in ufficio, legati alle nuove modalità lavorative e alla mancanza di una comunicazione aziendale efficace hanno avuto un ruolo di primo piano nell’iniziale insoddisfazione dei dipendenti.
Riconoscere la differenza tra burnout e stanchezza
Bisogna sottolineare un aspetto importante: non si deve confondere il burnout con una comune sensazione di insoddisfazione ed estrema stanchezza. Una metafora che può aiutare a comprendere la differenza tra le due condizioni è questa: il burnout è una vera e propria emicrania, mentre le sensazioni di insoddisfazione, stanchezza e delusione sono dei semplici mal di testa.
Come capire dunque di cosa si soffre? Il fenomeno del burnout è accompagnato dalla cronicità e quotidianità di sintomi come apatia, ansia, disinteresse, incapacità di far fronte alle responsabilità, demotivazione, esaurimento legato alla tecnologia e alle eccessive responsabilità. Le altre sensazioni, invece, sono più legate alla nostra percezione e alle nostre aspettative rispetto al lavoro, ma non rientrano nello spettro psicologico della persona.
Sconfiggere il burnout: una sfida organizzativa più che individuale
Una nuova indagine pubblicata da McKinsey fa luce sui fattori sul posto di lavoro spesso trascurati alla base della salute mentale e del benessere dei dipendenti nelle organizzazioni a livello globale. Secondo lo studio, realizzato dal McKinsey Healt Institute (MHI) intervistando oltre 15.000 persone tra dipendenti (14.509) e HR manager (1.389) in 15 Paesi, per quattro leader delle Risorse Umane su cinque la salute mentale e il benessere sono una priorità assoluta. Molte aziende (9 su 10) offrono una qualche forma di programma di benessere come yoga, abbonamenti ad app di meditazione, giornate di benessere e corsi di formazione sulla gestione del tempo e sulla produttività.
Tuttavia, per quanto lodevoli siano questi sforzi, i ricercatori McKinsey evidenziano come questi siano concentrati più su interventi a livello individuale, piuttosto che mirati a risolvere le cause del burnout dei dipendenti alla radice. Spesso, infatti, si pensa alla salute mentale, al benessere e al burnout dei dipendenti come un problema personale, ed ecco perché la maggior parte delle aziende ha risposto ai sintomi offrendo risorse incentrate sugli individui come programmi di benessere. Basta però guardare le risposte più citate dai dipendenti su quali aspetti del proprio lavoro minano la loro salute mentale e il loro benessere – sensazione di essere sempre disponibili, trattamento iniquo, carico di lavoro irragionevole, scarsa autonomia e mancanza di supporto sociale (comportamenti definiti dallo studio come “tossici”, ndr) – per rendersi facilmente conto che il burnout è sì vissuto dagli individui, ma i fattori più potenti del burnout sono gli squilibri organizzativi sistemici tra le richieste di lavoro e le risorse di lavoro. Pertanto, i datori di lavoro possono e devono considerare gli alti tassi di burnout come un potente segnale di avvertimento che l’organizzazione, non gli individui parte della forza lavoro, deve subire un cambiamento sistematico significativo. Nel sondaggio, evidenza infatti MHI, i dipendenti che riferiscono di aver sperimentato livelli elevati di comportamento tossico al lavoro hanno una probabilità otto volte maggiore di manifestare sintomi di burnout.
Adottare un approccio sistemico, spiegano i ricercatori, significa affrontare sia i comportamenti tossici sul posto di lavoro che riprogettare il lavoro in modo che sia inclusivo, sostenibile e di supporto all’apprendimento e alla crescita individuale, comprese le capacità di adattabilità dei leader e dei dipendenti. Significa ripensare i sistemi organizzativi, i processi e gli incentivi per riprogettare il lavoro, le aspettative sul lavoro e gli ambienti del team. Fare yoga dunque non basta ed è molto probabile che i datori di lavoro che cercano di migliorare il burnout senza affrontare i comportamenti tossici falliscano.
New Normal: 5 regole per gestire le persone ed evitare il burnout
Sempre secondo la ricerca di BVA DOXA, il 92% dei lavoratori ritiene che sia l’azienda per cui si lavora a doversi occupare di benessere psicologico.
Questa dimensione, infatti, non è importante soltanto per le persone e per la loro salute, ma anche per l’organizzazione stessa: non dimentichiamoci che rendimento professionale e profitto sono strettamente legati alle potenzialità lavorative della popolazione aziendale.
Cosa può fare, quindi, un’organizzazione per gestire al meglio le proprie risorse nel New Normal, caratterizzato da maggiore digitalizzazione e Hybrid Work? Ecco 5 regole che si possono seguire:
- Stabilire un catalogo di corretti comportamenti per tutti i livelli aziendali: l’obiettivo è permettere a tutti i dipendenti di mantenere un buon equilibrio tra vita professionale e vita privata ed evitare l’over-working (alcuni esempi di habits possono essere: non organizzare videochiamate troppo prolungate, non passare l’intera giornata lavorativa in call, non richiedere task ai dipendenti oltre l’orario di lavoro, anche da remoto, etc…).
- Garantire ai dipendenti flessibilità di tempo e spazio e una gestione efficace ed autonoma delle mansioni: l’obiettivo in questo caso è rispondere alle nuove esigenze che i dipendenti hanno sviluppato nel corso della pandemia. Infatti, con l’introduzione dello Smart Working, le persone non sono più disposte ad affrontare tempistiche troppo lunghe per arrivare al lavoro e preferiscono un’autonoma o concordata organizzazione delle task.
- Costruire un piano efficace di Employee Engagement aziendale, che comprenda la ricerca e la ricezione dei feedback, comunicazione chiara e comprensibile e progettazione di attività in linea con i need del dipendente: l’obiettivo è far sentire il dipendente nuovamente parte di una realtà aziendale che ha a cuore i suoi bisogni e le sue esigenze, con cui può condividere i valori e nella quale può lavorare serenamente.
- Fornire una formazione che non venga percepita soltanto come mandatoria e necessaria all’organizzazione, ma anzi come un’occasione per l’employee self-improvement e per la crescita professionale: l’obiettivo è dimostrare ai collaboratori che la formazione non è soltanto un pretesto dell’azienda, ma che è fondamentale per le singole persone al fine di arricchirsi e rimanere al passo con la trasformazione digitale e i trend del mercato.
- Assicurare al dipendente ascolto e, a discrezione dell’azienda, anche supporto psicologico aziendale con attività di counseling: l’obiettivo è andare incontro ai need emersi durante la pandemia, per garantire che le persone percepiscano attenzione da parte della organizzazione non solo nei confronti del profitto, ma anche della condizione psicologica delle proprie risorse.