Flessibilità, Smart Working, ore retribuite per lo sport, tempo per pensare e, ora, l’ultima mossa dell’head hunter milanese: la riduzione di quattro ore dell’orario lavorativo settimanale, a parità di stipendio, per i suoi dipendenti. Una decisione che, dal 2021, si estenderà a una intera giornata. Ma come si concilia questa mossa con la produttività, il conto economico e una cultura del lavoro ancora spesso basata sulla presenza e non sui risultati? William Griffini, CEO di Carter & Benson, ci rivela la sua visione del lavoro che, nella sede milanese di Foro Buonaparte, è già realtà.
Carter & Benson crede fortemente in una organizzazione del lavoro basata sulla qualità del tempo e dell’offerta e servizio al cliente. «La pressione da noi è sul fare bene, non sul tempo trascorso in azienda. Io non premio chi “fa notte alla scrivania”, perché in tal caso c’è qualcosa che non va nella sua organizzazione del lavoro o nella nostra capacità di gestire i progetti come responsabili», commenta Griffini. Fin da subito, quando l’ha fondata a Milano nel febbraio 2003, l’imprenditore ha adottato un approccio flessibile, misurando la produttività non in base alla presenza oraria, ma in base alla qualità del servizio al cliente, alla sua soddisfazione e fidelizzazione. La società di ricerca e selezione di figure executive fa parte del network internazionale IMD International Search Group, presente in 24 Paesi con 400 persone e un fatturato globale di 60 milioni di euro e di cui Simona Cremascoli, partner di Carter & Benson, è membro del CdA. In Italia la società ha un fatturato di 5 milioni di euro tra attività di head hunting e servizi strategici, tra cui assessment e attività di intelligence.
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Il suo approccio mi ricorda la mentalità nordeuropea dove, dopo le 17, nessuno più lavora…
Sì, in effetti anche da noi spesso i partner escono alle 17.30 e l’ufficio chiude alle 18.30. La mia filosofia nasce dalla convinzione che il tempo sia una delle risorse più preziose che possediamo e per questo debba essere vissuto con la massima qualità. Credo che un buon lavoratore sia più utile all’azienda se ha tempo anche per sé (sport, vita sociale, cultura, famiglia), perché in ufficio sarà più contento e soddisfatto, lavorerà più volentieri, sarà più rilassato e concentrato e darà più facilmente il proprio contributo all’impresa. Io personalmente ho una forte propensione al sociale, che è parte integrante delle mie giornate lavorative. In Italia, invece, prevale ancora la cultura del controllo e della presenza a oltranza in ufficio.
È questione di organizzazione lavorare meglio, in modo più veloce ed efficace?
Sì, riguarda senz’altro l’auto-organizzazione e la gestione del team, delle informazioni e del processo decisionale, ma è anche questione di cultura aziendale. Serve infatti un management che valorizzi un approccio smart, senza sentirsi defraudato di quel potere apparente dato dal “command e control”, che si è dimostrato essere spesso meno produttivo delle aspettative. Al tempo stesso, quel management deve incoraggiare un cambio di mindset nei collaboratori, perché si sentano liberi di organizzarsi con più autonomia.
Lo Smart Working apre uno spiraglio a questa nuova cultura del lavoro?
Certo, a patto che lo Smart Working sia strutturato per valorizzare l’autonomia e la responsabilizzazione. Al contrario, se viene confinato al remote working una volta alla settimana dalle 9 alle 18 con totale reperibilità, come avviene nella maggior parte dei casi, allora rientra ancora in una mentalità dirigistica, che lascia poco spazio alla libertà e mobilità dei dipendenti. Una reale flessibilità organizzativa offre benefici reali sul work-life balance e, di conseguenza, sul clima aziendale e sul livello di engagement del personale. In Italia, infatti, solo il 39% delle imprese dichiara di avere personale ingaggiato, stando alle rilevazioni del Polimi dal punto di vista datoriale.
Un approccio più qualitativo impatta anche sulla creatività e proattività dei collaboratori?
Sì, ne sono convinto. In azienda ho introdotto la possibilità di dedicare un’ora alla settimana al pensiero libero dall’operatività, in sala relax, per lasciar emergere pensieri, idee e soluzioni nuove. Ma si fa ancora fatica a trasmettere il valore del fermarsi a pensare, anziché fare sempre. Così, per ora, quello spazio lo utilizziamo per trovarci e confrontarci liberamente, senza ordine del giorno, tra colleghi, responsabili e collaboratori. In Carter & Benson non sono conteggiate neanche le ferie, nel senso che si può abbondare purché si garantiscano i risultati aziendali nei tempi dati.
In Carter & Benson avete adottato anche lo Smart Working?
Lo abbiamo fatto, in linea con la nostra cultura aziendale. Il lavoro in remoto non è infatti regolamentato in termini restrittivi, piuttosto spingiamo a lavorare fuori ufficio almeno due giorni alla settimana. Ovviamente mettiamo in conto quel 10-15 per cento di popolazione resistente, che preferisce venire in ufficio, o che a casa produce meno. In genere i “resistenti” sono gli stessi che anche in ufficio sono lenti e disordinati. A ognuno, comunque, forniamo gli strumenti utili per svolgere al meglio il proprio lavoro. Così, dal 2004, abbiamo dotato l’ufficio di tutti i supporti tecnologici per lavorare ovunque ci si trovi e con ogni device, aggiornandoli negli ultimi anni con i sistemi digitali collaborativi. Ma certo resta una questione di cultura, se e come utilizzare questi strumenti e trarne il massimo vantaggio. Vediamo che, generalmente, in smart working si riesce a concentrare il lavoro in 4-5 ore, grazie a una maggiore concentrazione e a meno affaticamento da commuting.
“Less in more” sembra essere il vostro motto e ora anche la mezza giornata libera. Qual è la ratio?
La ratio è quella di premiare con la libertà, a priori, il lavoro responsabile ed efficace. Quelle 4 ore settimanali si possono utilizzare tutte insieme o distribuire nel corso delle giornate, ma sono un monte ore retribuito a disposizione delle persone per la loro vita privata. Preferisco collaboratori meno presenti, ma più motivati, di buon umore e propositivi, che siano orientati ai risultati aziendali con entusiasmo e che offrano un prodotto/servizio di qualità al cliente, che così si fidelizzi e faccia un buon passaparola.
Tra l’altro, queste ore vanno ad aggiungersi alle due ore settimanali libere retribuite per fare sport, già introdotte da anni. L’obiettivo più ampio, se la fase pilota funzionerà, sarà quello di estendere a una giornata intera settimanale questo tempo libero retribuito.
Quanto incidono queste decisioni sul conto economico? E in che senso dovrà funzionare la fase pilota?
È indubbio che, all’inizio, quattro ore alla settimana lavorate in meno da una trentina di persone incideranno negativamente sul conto economico, ma io valuto altri elementi che, sul medio-lungo periodo, dovrebbero far crescere anche la linea in basso del conto economico. In che modo? Con un aumento di produttività in termini di crescita della clientela e della quota di mercato, grazie a servizi sempre più mirati e personalizzati offerti dai miei collaboratori. Grazie a un aumento di attrattività del brand nei confronti di competenze di alto livello che apprezzino sia il nostro approccio all’autonomia e responsabilità, sia la nostra credibilità e integrità rispetto ai valori espressi, oltre l’immediato vantaggio produttivo. Punto anche sulla capacità di mantenere all’interno il know-how di Carter & Benson grazie a un buon clima aziendale e considero l’impatto sociale delle mie decisioni come forma di restituzione alla comunità. Potrei infatti dover assumere altre risorse per sopperire alle ore in meno lavorate dagli attuali collaboratori, a parità di stipendio. La mia è un’azione che va nella direzione della responsabilizzazione, dell’efficacia dei risultati, del benessere delle persone e, perché no, anche del profitto. Sono infatti convinto si inneschi un circolo virtuoso che darà anche risultati economici.
Avete anche un welfare aziendale strutturato?
Sì, abbiamo una piattaforma con un’ampia scelta di servizi con agevolazioni, ma è poco usata fine a se stessa perché siamo già un’azienda che offre molto, ingegnandosi quando necessario. Per esempio al buono pasto che, soprattutto nei bar del centro di Milano, non è sufficiente a coprire un pasto, abbiamo sostituito delle convenzioni con alcuni bar dove i nostri dipendenti pranzano senza pagare. Per noi è un costo aziendale che scarichiamo e, al tempo stesso, copriamo totalmente la loro spesa. La piattaforma diventa di utilità soprattutto per chi decide di convertire totalmente o parzialmente il premio di risultato in servizi welfare, perché garantisce trasparenza. Ma, ripeto, da noi il welfare fa parte del DNA aziendale da prima della nascita di “wallet” e panieri elettronici.