Futuro del lavoro

BCG, reskilling e upskilling in Italia: sempre più la formazione è guidata dagli analytics

L’ultima ricerca di Bcg “Decoding Global Trends in Upskilling and Reskilling” rivela una generale consapevolezza dell’impatto delle nuove tecnologie sul mondo del lavoro e della necessità di potenziare le proprie competenze e di acquisirne di nuove. Con sostanziali differenze geografiche e per professioni

Pubblicato il 05 Dic 2019

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Con la velocità di innovazione tecnologica che impatta sul lavoro e sulle professioni serve un atto di responsabilità da parte di tutti: governi, lavoratori, imprese. I governi dovrebbero sostenere iniziative di formazione professionale e programmi di istruzione, partendo da una mappatura delle competenze del futuro. I lavoratori dovrebbero sforzarsi di mantenere aggiornate le proprie competenze e accettare che la formazione professionale sia un impegno costante lungo l’intero ciclo di vita lavorativa (Lifelong Learning). Le aziende, a loro volta, dovrebbero investire di più, in prospettiva, nello sviluppo professionale e nelle capacità gestionali dei propri dipendenti.

Nel frattempo, c’è sempre più consapevolezza sul fatto che le nuove tecnologie trasformeranno le singole professioni. Ne è convinto il 61% a livello mondale, come rilevato dalla ricerca di BCG “Decoding Global Trends in Upskilling and Reskilling”, condotta con l’agenzia di recruitment online The Network su un campione di 366mila intervistati della forza lavoro di 197 Paesi, che ha indagato gli effetti dei cambiamenti tecnologici e della globalizzazione sulla formazione. Nello specifico, il 49% ritiene che i principali fattori che determineranno il cambiamento saranno la robotica e l’Intelligenza Artificiale, il 45% la globalizzazione e la diffusione dell’outsourcing. Una sfida che accomuna economie in via di sviluppo ed economie avanzate, sfida alla quale si reagisce cercando di potenziare le proprie competenze o differenziandole per trovare nuove opportunità. «Va precisato che sulla propensione alla formazione si individuano chiare differenze per professione ed expertise. La maggior parte di esperti nel mondo digitale, IT, o professioni di ricerca, considerata la rapida evoluzione del proprio settore, sono spinti più di altri a spendere molto tempo in formazione», precisa Matteo Radice, Managing Director e Partner BCG.

Reskilling e upskilling in Italia

In Italia, in particolare, due su tre lavoratori (70%) sono pronti a diversificare le loro competenze (reskilling) per trovare una nuova occupazione: questo dato è sopra la media globale, che si attesta al 67%. La predisposizione varia a seconda della regione del mondo, con l’America Latina in testa, mentre i Paesi più restii al cambiamento sono quelli nell’Europa centrale e orientale, come Polonia, Germania e Russia.

Rispetto al reskilling upskilling, il 62% degli italiani compie già uno sforzo significativo, dedicando almeno alcune settimane all’anno in attività di formazione, collocandosi nella parte medio-alta della classifica, ma leggermente sotto la media mondiale, che è al 65%. Il Myanmar (Birmania) è il primo Paese per impegno nella formazione (87%), seguito da Nigeria, Cina, Camerun, Benin, Iran. Uno su due italiani ritiene che le tecnologie impatteranno in modo evidente la loro professione e il 55% che il fattore principale di cambiamento sarà la globalizzazione.

«Dallo studio emergono differenze significative a livello geografico relativamente al tempo che ogni lavoratore dedica alla formazione – prosegue Radice -. Se in Cina circa l’80% del campione ha dichiarato di impegnare più di un settimana all’anno per lo sviluppo delle competenze, in Germania si è fermi al 38%, in Francia al 42%. L’Italia si distingue come un esempio positivo, con oltre il 60% degli intervistati impegnati nella formazione continua. Sono dati su cui non solo le aziende, ma anche i governi devono soffermarsi, con la prospettiva di promuovere e sostenere l’apprendimento e la formazione delle risorse, soprattutto di fronte alle sfide che l’innovazione tecnologica pone al mondo del lavoro».

Formazione sempre più su misura, guidata dagli analytics

I canali preferiti per la formazione sono i programmi di autoapprendimento (usati dal 63% dei lavoratori) e il learning on the job (61%), mentre sono meno gettonati conferenze/seminari (36%), le istituzioni formative tradizionali (34%) o online (30%), le applicazioni mobile (24%) e i programmi governativi (7%).

«Da una logica più tradizionale, con training poco personalizzati e spesso basati sui requisiti formativi di intere famiglie professionali, le imprese stanno passando sempre più a meccanismi di formazione mirati all’acquisizione di singole skill – spiega Matteo Radice -. Training mirati e più “leggeri” vengono spesso selezionati e proposti, con l’utilizzo di advanced analytics, attraverso una lettura intelligente delle esigenze che il dipendente sta dimostrando in uno specifico momento della propria carriera. Le informazioni vengono catturate in modo diversificato: preferenze espresse direttamente dal dipendente; training effettuati da persone con profili simili; elementi di contesto e così via. Visto il trend, non stupisce come siano in crescita gli investimenti in nuovi formati-modalità di apprendimento. La sempre più forte personalizzazione dei contenuti, ad esempio, sta sostenendo la diffusione di programmi di autoapprendimento: piattaforme digitali (web, ma anche mobile) direttamente messe a disposizione dal datore di lavoro o da terze parti partner specializzate, che riducono i costi di erogazione e rendono accessibili contenuti formativi h24. Il percorso formativo del singolo è pertanto costruito su ciò che il datore di lavoro ritiene indispensabile e su scelte personali basate su specifiche passioni e propensioni e viene erogato in modalità “self” consultabile in ogni momento».

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