Incentivare una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva, un lavoro dignitoso per tutti, donne, uomini, giovani e persone con disabilità. È questo uno dei 17 obiettivi, o Goals, contenuti nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile sottoscritta dai 193 Paesi membri delle Nazioni Unite di cui l’Italia fa parte. Ma se il tema della diversità di genere e razziale ha negli ultimi anni, seppur a fatica, raggiunto una certa rilevanza, non altrimenti si può dire della diversità legata alla disabilità. Eppure l’impegno a realizzare il diritto al lavoro delle persone con disabilità non è solo una questione di giustizia, è un investimento in un futuro comune ed è un’opportunità per le aziende.
Nel nostro Paese, la principale norma finalizzata all’inserimento e all’integrazione lavorativa delle persone con disabilità è la legge n. 68 del 1999 che ne disciplina il collocamento mirato obbligatorio all’interno di aziende con più di 15 dipendenti. Tuttavia, evidenziano gli ultimi dati Istat, nel 2019, considerando la popolazione tra i 15 e i 64 anni, risulta occupato solo il 32,2% di coloro che soffrono di limitazioni gravi. I numeri parlano chiaro: la strada da percorrere per permettere alle persone con disabilità di partecipare in modo equo e completo al mondo del lavoro e contribuire alla sua crescita come chiunque altro è ancora lunga.
Ma se la legge dunque non è stata sufficiente a generare quel cambio di passo affinché l’integrazione della persona con disabilità in ambito lavorativo costituisca la norma e non l’eccezionalità, qual è allora la chiave in grado di aprire la porta, e le menti, delle aziende all’inclusione? La risposta è la cultura. Ne sono concordi Mariano Corso, Direttore Scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano e Presidente di P4I – Partners4Innovation, Agnese Bottaro, Enterprise Transformation Consultant per l’Italia CoachHub, e Consuelo Battistelli, Diversity & Engagement Partner di IBM, ospiti del webinar organizzato da Network Digital360 in collaborazione con CoachHub dal titolo “Diversità e Inclusione: il potere dell’equità in azienda. Valorizzare le persone con disabilità favorendo la crescita aziendale”.
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Oltre all’inclusione delle diversità
Se è vero che i principi di diversità, equità e inclusione sono sempre più presenti nelle strategie delle imprese, tuttavia non sono ancora veramente parte del loro DNA. Purtroppo bisogna prendere atto che diversità non si traduce automaticamente in equità. Non basta infatti fermarsi al recruiting di rappresentanti delle “minoranze”, un recruiting spesso trainato dagli obiettivi di responsabilità aziendale o dalla normativa. In realtà, quello che serve è creare un ambiente in cui ogni dipendente abbia pari accesso a opportunità e risorse, e che lo metta nelle condizioni di contribuire pienamente al successo dell’organizzazione.
Che oggi occorra andare ben oltre il binomio diversity & inclusion ne è convinto anche Mariano Corso che però preferisce parlare di “valorizzazione o orchestrazione delle differenze, della varietà”. «Diversity fa riferimento al concetto di diversità e viene dal latino divertĕre che significa “deviare”. Ciò sottintende che esista una normalità e poi qualcosa che rispetto a questa devia. “Inclusion” significa includere dal latino in-claudere, cioè “chiudere in un recinto”. Quindi, secondo questa logica il problema è che c’è qualcuno che devia dalla normalità e che quindi andrebbe riconosciuto e riportato nel recinto della normalità». Volutamente provocatorio, il prof. Corso rivela una logica dietro al senso di queste parole oggi pericolosa e da superare.
«La realtà – prosegue Mariano Corso – è che dovremmo comprendere che nessuno è davvero “normale”, tutti dobbiamo ritenerci un po’ speciali, con le nostre caratteristiche e abilità, che ci rendono unici. Dobbiamo abituarci a conoscere e valorizzare. Il vero target delle nostre azioni, delle politiche di gestione valorizzazione della varietà che un’organizzazione dovrebbe mettere in atto, dunque, non sono tanto i “diversi” che non esistono se non in contrapposizione a una pretesa normalità, ma coloro che si ritengono i “normali”, coloro che non accettano la varietà che poi vuol dire non riconoscere neanche la propria e la altrui unicità. Chi si ritiene normale, in fondo, recita un ruolo omologato, si comporta ed agisce secondo quelli che sono i canoni che ritiene socialmente e organizzativamente apprezzati. Chi vive così, chi veste una maschera e recita un ruolo non davvero suo, non sarà mai autentico, e non sarà mai in grado di mettersi davvero in gioco, di ascoltare, di apprendere, innovare, perché non rischia, non si fida. In una parola non sarà mai una persona “ingaggiata” nel e con l’organizzazione».
Valorizzare le differenze per sviluppare engagement
«Ma sono proprio le persone “ingaggiate” quelle di cui più oggi abbiamo bisogno nelle nostre organizzazioni. L’engagement è una condizione psicologica di benessere e sicurezza, di adesione a un progetto, è un senso di condivisione di obiettivi e priorità, che nasce dalla fiducia, in se stessi innanzitutto, e poi nei propri colleghi, e nel futuro nell’organizzazione. L’engagement è una condizione che porta benessere e induce comportamenti positivi di impegno, lealtà, propensione al cambiamento e creatività. Queste crisi organizzative che stiamo vivendo (per cui la pandemia ha fatto da detonatore) sono innanzitutto delle crisi di engagement: senza persone ingaggiate i progetti falliscono, l’innovazione non nasce e non si sviluppa, l’organizzazione non evolve, non si adatta all’ambiente. Oggi una delle sfide più importanti è dunque quella di aiutare le persone a ritrovare entusiasmo ed engagement nel proprio lavoro. Ecco perché investire sul superamento dei fenomeni di esclusione è così urgente, ciò significa ridare autenticità alle nostre organizzazioni, e questo passa in gran parte dalla valorizzazione delle differenze. Per creare le giuste condizioni bisogna crederci, avere visione e forzare comportamenti sociali e organizzativi giusti, in una parola creare cultura, altrimenti, anche in un ambiente apparentemente eterogeneo come quello in cui noi viviamo, la normale dinamica porterà all’esclusione delle differenze e questo vuol dire un declino di civiltà», chiarisce Mariano Corso.
Dal recruiting all’inclusione
Come stanno rispondendo le aziende a queste sollecitazioni e qual è il sentiment che si respira tra i corridoi delle organizzazioni lo spiega bene Agnese Bottaro dal suo punto di osservazione privilegiato. Consulente di CoachHub, principale piattaforma globale di sviluppo dei talenti composta da oltre 3.000 business coach certificati in 70 paesi in sei continenti, Agnese Bottaro lavora fianco a fianco con le organizzazioni e attraverso il Digital Coaching affronta temi centrati sulle persone, sullo sviluppo del talento, della leadership, della crescita professionale.
«Con il mio team – racconta Agnese Bottaro – abbiamo la fortuna di confrontarci pressoché quotidianamente con le aziende più diverse sul territorio sui piani di azione, i piani strategici e gli obiettivi che intendono raggiungere nel medio lungo periodo. Parliamo sostanzialmente delle priorità dell’azienda. Mi rendo conto di dire qualcosa di forte adesso ma, purtroppo, il disability management, quindi la gestione della disabilità sul posto del lavoro, non rientra praticamente mai tra le priorità che le aziende condividono. La nostra impressione è che si limitino ad assolvere l’obbligo della legge 68 del 1999: assumendo un certo numero di persone che appartengono alle categorie protette ritengono di aver già fatto un passo verso l’inclusività. Tuttavia, sebbene si apprezzi un processo di recruitment più inclusivo, l’inclusione è altro. Uno step in più viene fatto dalle aziende che si adoperano per offrire strumenti tecnologici e servizi di logistica a supporto delle persone con disabilità, ma anche in questo caso siamo ancora ben lontani dall’affrontare il tema dell’inclusione in maniera adeguata. La domanda che mi faccio, e che credo dobbiamo farci tutti quando parliamo di disability management all’interno dell’azienda, è un’altra ed è quella che io faccio molto spesso ai miei interlocutori: quali sono le azioni concrete che le aziende possono mettere effettivamente in piedi per far sì che questo specifico target sviluppi il senso di appartenenza e si senta parte integrante del suo team?».
Il problema principale è quindi ancora una volta che c’è una cultura insufficiente che consenta di affrontare nel modo giusto il tema della disabilità in azienda. «Troppo spesso gestire la disabilità si traduce in comportamenti inadeguati, come mostrarsi fin troppo indulgenti e protettivi col lavoratore con disabilità. Questa indulgenza può tradursi nella non condivisione di feedback costruttivi per la paura di ferire, nella mancata assegnazione di progetti complessi, nel bypassare temi relativi allo sviluppo di carriera. Tutto ciò però ha dei risvolti: se pensiamo alle organizzazioni che non sono in grado di gestire la disabilità in maniera inclusiva ci confrontiamo con delle realtà che vanno inevitabilmente incontro a una perdita sotto diversi punti di vista. Come è stato già ben illustrato da Mariano Corso, la persona non ingaggiata non è motivata e di conseguenza il primo riscontro negativo sarà sulle performance: la persona renderà meno e male impattando sul livello di turnover dell’azienda. Inoltre, la mancanza di una leadership inclusiva inciderà sull’immagine dell’azienda minacciando l’employer branding, oggi sempre più strategico per attirare e trattenere talenti all’interno delle organizzazioni».
Il coaching come strumento per valorizzare tutte le persone in egual misura
Ma allora cosa si potrebbe fare per sensibilizzare le organizzazioni nel perseguire una reale inclusione?
«Come anticipato – risponde ancora Agnese Bottaro –, si deve intervenire sostanzialmente partendo dalle basi, dalla cultura, che significa lavorare in profondità sul nuovo mindset e questo lo si può fare tramite azioni concrete. Nello specifico noi lo facciamo con il Digital Coaching intervenendo su due livelli. In prima battuta lavorando con i leader a cui forniamo tutti gli strumenti più adeguati ad adottare uno stile manageriale protettivo e improntato sull’ascolto, con l’obiettivo di garantire un ambiente psicologicamente sicuro. Questo passaggio li porta a essere capaci di saper ispirare fiducia, di garantire un ambiente dove i membri del team si sentono liberi di parlare apertamente e di fare emergere le loro necessità: è così che si mette tutti nella condizione di incanalare il proprio talento all’interno di un percorso professionale. In secondo battura, lavoriamo anche con le persone con disabilità per aiutarle ad acquisire quella consapevolezza che consente loro di esprimersi liberamente con la piena coscienza del contributo che effettivamente portano all’interno dell’azienda. Il coaching è lo strumento che consente di intervenire sulla particolarità e sulla specificità di ognuno e tradurre tutto quello di cui abbiamo parlato in azioni concrete».
La persona al centro di tutto
«In ogni caso, il punto di partenza per ogni processo di inclusione in azienda deve essere sempre la persona, il che non è scontato», segue Consuelo Battistelli.
«A volte ci si dimentica di fare un’azione semplicissima: chiedere alla persona con disabilità “cosa sai fare?”, “quali sono le tue competenze?”, “che cosa hai bisogno per superare il tuo limite?”. Il problema non è dunque tanto entrare in azienda, la legge per fortuna ha dato un impulso in tal senso, così come non è nemmeno tanto avere a disposizione la tecnologia di cui la persona ha bisogno, la parola chiave per la persona con disabilità è un’altra: partecipazione. E se la persona si sente motivata diventa anche più produttiva garantendo all’azienda risultati, oltre al fatto che un punto di vista diverso può conferire un valore aggiunto unico e irripetibile. Quello su cui lavorare oggi è dare il giusto spazio alla ricchezza della diversità, della pluralità dei punti di vista. Lavorare con persone con caratteristiche diverse deve essere intesa come un’opportunità, e si deve mettere tutti nelle condizioni di esprimersi al meglio. Ma tutto questo è possibile attraverso lo sviluppo di una cultura dell’inclusione che passa necessariamente attraverso l’informazione e la formazione».
E all’importanza della cultura come veicolo di inclusione dedica le ultime battute Mariano Corso: «Lavorare sul mindset delle persone è importantissimo proprio perché come dicevamo all’inizio occorre innanzitutto sradicare l’idea che ci sia una normalità e che ci sia un qualcuno di diverso che va trattato in modo differente. Tuttavia, non basta lavorare su questo in azienda, non c’è dubbio che occorra farlo prima perché gli stereotipi e i pregiudizi nascono in famiglia, nascono a scuola, e quindi vanno combattuti lì. Però poi cosa fare quando si è in azienda? Sicuramente lavorare sull’apertura e sull’autonomia delle persone crea le condizioni culturali affinché ogni membro dell’organizzazione sappia guardare una persona con disabilità per quello che di unico può portare. È evidente che l’esempio dei manager è fondamentale, quindi il lavoro che fanno società come quella di Agnese Bottaro con il coaching è fondamentale. Così quando diciamo “è tutto un fatto di cultura, è tutto un fatto di mindset” spesso cogliamo nel segno, però poi bisogna agire concretamente attraverso azioni positive di orientamento».