Tra le conseguenze dirompenti generate dalla pandemia nel mondo del lavoro, durante gli ultimi mesi uno in particolare sta suscitando l’attenzione dell’opinione pubblica, e la preoccupazione delle imprese. Stiamo parlando della Great Resignation, quel fenomeno delle dimissioni di massa volontarie date in assenza di alcuna alternativa che sta coinvolgendo i dipendenti a livello globale.
Dagli Stati Uniti all’Italia i numeri sono davvero importanti: nel nostro Paese, stando a quanto riportato dall’Associazione dei direttori del personale (Aidp), su un campione di circa 600 aziende il 60% è stato coinvolto dal fenomeno delle dimissioni volontarie e nella maggior parte dei casi (il 75%) l’evento era inaspettato. Indagando sul fenomeno emerge abbastanza chiaramente come la motivazione economica sia solo una tra le cause che invece, per la maggior parte, fa riferimento a questioni meno materiali e più legate alla riscoperta volontà di dare un senso alla propria vita e al lavoro come parte di essa, e non quale motore trainante.
Secondo un’indagine McKinsey, le persone ora vogliono avere uno scopo ben chiaro nel loro lavoro, connessioni sociali e interpersonali con i colleghi e manager, interazioni significative anche se non necessariamente di persona, e vogliono provare un senso di identità condivisa. Certo non disdegnano anche una migliore retribuzione e benefit, ma più di questo ricercano il sentirsi apprezzati dalla loro organizzazione e dai capi. A ribadire alcuni di questi concetti è anche lo studio realizzato dall’IBM Institute for Business Value che, guardando al futuro, rispetto a cosa dovrebbero offrire i datori di lavoro per coinvolgere i dipendenti, rivela che per i lavoratori al primo posto c’è l’equilibrio tra lavoro e vita privata (51%), seguito dalle opportunità di avanzamento di carriera (43%), compensi e benefit (41%) ed etica e valori del datore di lavoro (41%). Più di un terzo dei dipendenti ha indicato anche le opportunità di apprendimento continuo (36%) e la stabilità organizzativa (34%) come fattori chiave di coinvolgimento.
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L’annoso tema delle competenze
A questo fenomeno si aggiunge anche la mancanza di competenze adeguate, diventata sempre più significativa data l’accelerazione al digitale degli ultimissimi anni. «Numerosi Paesi devono affrontare un problema fondamentale legato alle competenze, in particolare perché la natura delle competenze necessarie in futuro è cambiata bruscamente dall’inizio della pandemia. Il crescente grado di digitalizzazione, la necessità di lavorare in remoto e il ritmo dell’automazione hanno aggravato le sfide per lo sviluppo di una forza lavoro in grado di costruire la nuova realtà. In effetti, i Paesi devono affrontare sia un divario di competenze tradizionale (skill gap, ndr) − l’indisponibilità di un numero sufficiente di candidati con le competenze necessarie per coprire i posti vacanti − sia una discrepanza di competenze (skill mismatch, ndr) in cui le qualifiche delle persone non sono quelle necessarie per i lavori che svolgono», affermano i ricercatori di Boston Consulting Group nello studio Alleviating the Heavy Toll of the Global Skills Mismatch, secondo cui l’Italia si trova al 34esimo posto su 75 a fronte di percentuale di skill mismatch del 38,2% ,con quasi 10 milioni di lavoratori male assortiti.
Come dunque conciliare le mutate esigenze dei lavoratori e la necessità di garantire al business resilienza, sviluppo e competitività? Una soluzione alle organizzazioni la fornisce l’Human Capital Management.
Dal HRM all’HCM, i lavoratori come valore sul quale investire
Sebbene spesso utilizzati in maniera interscambiabile, Human Resource Management (HRM) e Human Capital Management (HCM) sono in realtà due approcci distinti. L’HRM ha origine oltre un secolo fa e si concentra sullo sviluppo e la gestione di attività e processi che consentono ai dipendenti di svolgere i propri ruoli in modo efficace, l’HCM invece prende forma intorno agli anni ’60 nel momento in cui si è iniziato a comprendere che il vero potenziale dei dipendenti risiedeva nella loro capacità di generare redditività aziendale: se adeguatamente valorizzati attraverso investimenti mirati i dipendenti avrebbero potuto portare notevoli progressi nella produttività con conseguente aumento del profitto aziendale. Si tratta dunque di un approccio che mette al centro il lavoratore, che non è più considerato come voce di costo ma quale asset strategico dell’organizzazione su cui investire.
Un’efficace strategia HCM punta ad allineare le capacità e gli sforzi dei dipendenti con gli obiettivi aziendali, creando al contempo un ambiente in cui i singoli dipendenti si sentano a proprio agio, coinvolti e abbiano la possibilità di dare forma alle proprie aspettative di crescita personale e professionale. Tra le attività in capo all’Human Capital Management la formazione ha un ruolo di primo piano quale strumento per aiutare a migliorare le proprie prestazioni. Dall’onboarding sino all’ultimo giorno di lavoro, le organizzazioni che adottano strategie HCM si impegnano nel condurre regolarmente analisi individuali sul divario di competenze per garantire, tramite percorsi formativi adeguati e personalizzati, che ogni dipendente disponga sia delle competenze tecniche (hard skill) sia di quelle competenze trasversali (soft skill) necessarie per lavorare al meglio, esprimere il proprio potenziale, essere soddisfatto e coinvolto con l’organizzazione, che difficilmente abbandonerà (è anche così che si migliorano i livelli di employee retention e si abbattono gli esosi costi legati al turnover). È abbastanza evidente, in conclusione, che l’HCM costituisce un approccio win to win: dipendenti preparati e motivati sono la spina dorsale di aziende produttive e competitive che possono guardare con fiducia al futuro.
Nuove modalità formative per nuove esigenze
In tempi in cui i sistemi produttivi sono soggetti a rapidi cambiamenti sotto la spinta della Digital Transformation (e sempre di più lo sarà nel futuro) stare al passo con le competenze richieste diventa decisamente impegnativo. E in Italia non va certo bene se, stando ai dati rilevati dalla ricerca globale Digital Skills Index di Salesforce, dei 1.300 lavoratori italiani intervistati l’86% dichiara di non avere le competenze digitali necessarie alle aziende e l’87% si sente altrettanto impreparato per i prossimi cinque anni.
In questo contesto fortemente sfidante anche la formazione è chiamata a evolversi per rispondere ai sempre nuovi bisogni delle organizzazioni e alla richiesta di modalità di apprendimento personalizzate e dinamiche. Un modello particolarmente efficace per supportare lo sviluppo delle competenze e la crescita personale che sta prendendo piede grazie al potenziamento delle connessioni digitali è quello del blended learning, o “apprendimento misto”, che integra i più innovativi metodi di e-learning con la formazione tradizionale in aula finanche il sistema della flipped classroom, in italiano “classe capovolta”, nel quale, attraverso l’uso di strumenti multimediali la risorsa apprende in maniera autonoma e si riunisce in un secondo momento con il docente e gli altri partecipanti al corso per una lezione orientata alla messa in pratica delle conoscenze acquisite.
La possibilità di mixare apprendimento sincrono e asincrono consente di personalizzare il percorso formativo sulla base del proprio ritmo di studio e delle proprie disponibilità di tempo. Molto apprezzato nella formazione aziendale è il micro-learning, un percorso di apprendimento basato sulla creazione di contenuti brevi, spesso video, ed efficaci da poter fruire in autonomia in qualsiasi momento della giornata.
Strategie per valorizzare le persone in azienda
Blended learning, flipped classroom, micro-learning, sono dunque metodi formativi che ben si sposano con le nuove abitudini digital oriented e la necessità di apprendimento che non può essere più inteso come “una tantum” imposto dall’alto, ma va progettato per accompagnare la persona lungo tutto l’arco della vita fuori e dentro l’azienda, per questo si parla sempre di più di lifelong learning. Il lifelong learning, o “apprendimento permanente”, è la ricerca della conoscenza continua, volontaria e automotivata per scopi personali o professionali. I principali vantaggi che offre sono la crescita personale e lo sviluppo della capacità di affrontare i cambiamenti e, in termini prettamente lavorativi, la maggiore occupabilità e competitività.
Allo stimolo continuo verso l’apprendimento di nuove conoscenze, per valorizzare le persone in azienda, vanno affiancati percorsi di upskilling e reskilling ritagliati sulle attitudini e potenzialità dei dipendenti. Entro il 2030, ipotizza McKinsey, per via dell’automazione, da 75 a 375 milioni di persone potrebbero aver bisogno di cambiare ruolo in azienda e apprendere nuove competenze. Ma senza arrivare al 2030 è evidente già adesso come sia necessario prevedere attività di che consentano di riqualificare le risorse interne non disperdendo capitale umano: Gartner rivela che il 33% delle competenze richieste da un annuncio di lavoro medio nel 2017 non erano più necessarie nel 2021 oltre che mostrare come il numero totale di competenze richieste per un singolo lavoro cresce anno dopo anno del 10%.
Sempre McKinsey suggerisce 6 step per riqualificare le risorse aziendali e rilanciare la ripresa post Covid-19, i primi tre sono pensati per aiutare a definire la strategia e gli ultimi per metterla in atto:
- individua rapidamente le competenze da cui dipende il tuo modello di business di ripartenza;
- sviluppa le competenze dei dipendenti fondamentali per il tuo nuovo modello di business;
- avvia percorsi di apprendimento su misura per colmare le lacune critiche nelle competenze;
- inizia ora, prova rapidamente e ripeti (attraverso un sondaggio i ricercatori McKinsey hanno scoperto che la maggior parte delle aziende che avevano lanciato programmi di riqualificazione di successo hanno affermato di essere maggiormente in grado di affrontare le lacune di competenze causate da interruzioni tecnologiche o di implementare nuovi modelli o strategie di business);
- agisci come una piccola azienda per avere un grande impatto (un sondaggio globale ha mostrato come i programmi di riqualificazione nelle piccole organizzazioni hanno spesso più successo di quelli attuati nelle grandi organizzazioni poiché generalmente più agili);
- non tagliare il budget per l’apprendimento, anche in tempi difficili.
Ma non solo competenze tecniche, parallelamente le aziende devono lavorare per sviluppare le soft skill dei dipendenti. «Poiché la tecnologia, la globalizzazione e i cambiamenti demografici continuano a influenzare il modo in cui le aziende competono, l’importanza delle competenze trasversali aumenterà» afferma Deloitte che prevede come le occupazioni ad alta intensità di competenze trasversali rappresenteranno i due terzi di tutti i posti di lavoro entro il 2030, rispetto alla metà di tutti i posti di lavoro nel 2000. McKinsey rileva ben 56 soft skill di cui i cittadini avranno bisogno nel futuro mondo del lavoro. Le 56 skill sono divise in 4 gruppi: Cognitive, Interpersonali, di Self-leadership, dove spiccano problem solving, ascolto attivo, pensiero agile, adattabilità, empatia, abilità nella risoluzione dei conflitti, orientamento al risultato, guida al cambiamento e all’innovazione, energia, passione e ottimismo; e Digitali quali digital literacy, digital collaboration, digital learning, cybersecurity literacy, computational e algorithmic thinking, data analysis e statistics.
All’apprendimento delle digital skill, soft ma anche hard, è dedicata la piattaforma e-learning 360DigitalSkill che, basata su contenuti brevi, efficaci e fruibili in autonomia in ogni momento, si allinea alle più moderne tendenze in ambito formativo. La piattaforma 360DigitalSkill, tuttavia, è solo uno strumento all’interno di una più ampia strategia di sviluppo delle competenze e crescita personale messa in atto da Partners4Innovation (P4I), la società del gruppo Digital360 che offre servizi di Advisory e Coaching a supporto della trasformazione digitale e dell’innovazione imprenditoriale a imprese e Pubbliche Amministrazioni. «Il nostro approccio – afferma Angela Malanchini, Associate Partner di P4I − è strutturato per supportare le imprese in una crescita costante e continua che muta sulla base del contesto e delle esigenze valorizzandone gli aspetti più forti. Nessuna strategia top-dow, ma la volontà di costruire un percorso di sviluppo attorno alla persona sulla base delle sue attitudini e propensioni».