Come ingaggiare la prossima generazione a entrare in azienda? Stiamo ancora cercando di capire e dialogare con i Millennials ed ecco che avanza una nuova generazione, quella tra i 14 e i 21 anni, che l’economista inglese Noreena Hertz ha chiamato “Generazione K”, dal nome dell’eroina del film Hunger Games Katniss Everdeen, volitiva e determinata a sconfiggere le ingiustizie.
Totalmente immersi nel mondo digitale e, presto, a tu per tu con la robotica, cosa vogliono i teenager di oggi, che modelli prendono a riferimento? Su cosa puntare per farsi scegliere, come aziende datori di lavori, dai migliori di loro?
A rispondere a questi interrogativi nel corso del network PNC (The Power of new culture) – organizzato a maggio da Luisa Bagnoli, ceo di Beyond International -, è Noreena Hertz, speaker al World Economic Forum di Davos, studiosa dei bisogni, delle abitudini e delle caratteristiche dei ragazzi di oggi passati al setaccio in una sua ricerca svolta in Uk e Usa, e oggi direttrice associata del Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge.
L’identikit che ne è emerso è a tratti sorprendente per la ricercatrice stessa. I teenager sono ovviamente digitali, ma ricercano rapporti autentici face to face. Amano condividere su Istagram e YouTube, ma sono attenti alla privacy (il 67% guarda i settaggi sui social). Reputano Facebook troppo invadente e se ne stanno un po’ allontanando. Sono consumatori ma vogliono un ruolo da protagonisti, vogliono “co-creare”, attratti dalle esperienze dove possano dare un contributo personale. Sono nel mondo globale e standardizzato del web, ma esaltano l’unicità e apprezzano i brand e le aziende che non discriminino le differenze, anzi le accettano e le incoraggiano. Solo così potranno farsi ambasciatori di un brand o di un’impresa come lavoratori soddisfatti.
«È una generazione che certo presenta qualche contraddizione, ma è mossa da una “spinta valoriale”, cerca autenticità e valori intorno a sé», spiega Noreena al pubblico italiano. Forse sono solo apparenti queste contraddizioni. Proprio perché immersi nei social e nel digitale cercano di recuperare relazioni dirette, vere. Si fidano molto dei loro amici, della rete sociale con cui vanno ai concerti, e si fidano di più a pubblicare qualcosa già selezionato dalle persone di cui si fidano che da una fonte anonima. Si fidano anche dei loro genitori, della rete sociale più stretta intorno a loro. D’altronde, sono figli della paura. Ansiosi e preoccupati del cambiamento climatico, della mancanza di lavoro, del terrorismo islamico. Solo il 6% del suo campione dice di fidarsi delle multinazionali (contro il 60% degli adulti), mentre sembrano più fiduciosi nelle banche. Risparmiatori e low profile, forse nella banca vedono la protezione dei loro risparmi? Forse è un’affermazione mossa dalla paura? Noreena Hertz non ha risposte certe su tutto, anzi lascia aperto il dubbio, parla di necessità di approfondire ulteriormente, di continuare a osservarne i comportamenti e le scelte, ma di una cosa è certa. L’imprinting socio-economico ricevuto inciderà sulla personalità, il carattere e le scelte future, come è avvenuto con la generazione della recessione degli anni ’30.
Che lezione trarre allora da questo identikit? Su che cosa basare all’attrazione e l’engagement dei futuri lavoratori? Noreena Hertz suggerisce le “5 C”: cura, connessione, comunicazione, celebrazione, co-creazione.
1. Cura
Prendersi cura di loro, ascoltarli, capirne i valori. Andare oltre i propri confini come organizzazione e aprirsi ai loro orizzonti. Johnson&Johnson ne ha già dato prova secondo Noreena, scegliendo come portavoce di una campagna pubblicitaria una 18enne transgender. Perché la generazione K non vuole discriminazioni di sorta.
2. Connessione
Non cadere nella trappola di pensare che sia sufficiente la connessione virtuale, le mail, le chat, le intranet e le conference call per creare un buon clima aziendale. Questi giovani cercano anche occasioni di incontro, di conoscenza reciproca, di condivisione reale. Sono in rete, ma proteggono la propria privacy, non si espongono direttamente, usano nickname: quindi per connessioni autentiche cercano, diversamente dai Millennials, il face to face.
3. Comunicazione
Non credono alla pubblicità tradizionale che definiscono “blablabla”. Credono invece alla trasmissione di valori autentici. Solo così possono scegliere di farsi ambasciatori di un brand e di un posto di lavoro dove essere orgogliosi di lavorare. Per questo le aziende, fin dai primi colloqui, dovranno riuscire a catturarli con la trasparenza e l’autenticità dei loro messaggi.
4. Celebrazione
Celebrarne l’unicità, dar loro la possibilità di esprimersi e di essere diversi. Noi azienda ti diamo gli strumenti, tu raggiungi gli obiettivi in autonomia, con il tuo stile, essendo te stesso. Non si fanno discriminazione di genere, di orientamento sessuale, di cultura o di etnia.
5. Co-creazione
Farli sentire protagonisti e parte attiva dei progetti e della direzione aziendale. Loro vogliono dare un contributo personale e sono già
abituati a farlo con la creazione di contenuti favorita dal digitale. In Giappone, per esempio, la star musicale che va per la maggiore è un ologramma, Hatsune Miku, una giovane cantante che hanno creato, costruito loro, tutti insieme. Il potere della co-creazione digitale è ormai realtà e neppure le aziende tradizionali potranno trascurare quella che ormai è una consuetudine per i futuri lavoratori. L’ha capito anche Starbucks: la catena di caffetterie è riuscita ad attrarre un pubblico di giovanissimi che ancora non bevono caffè, facendogli fare la ricetta del loro frappucino preferito. Quello che ha vinto come gusto è il frappuccino allo zucchero filato.
Così va il mondo. Parola di Noreena.