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Gli italiani sempre più a caccia di soddisfazione, equilibrio e benessere in azienda. I numeri dell’Osservatorio HR del PoliMi



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Quasi la metà dei lavoratori ha cambiato organizzazione o vuole farlo. In generale, c’è un malessere diffuso, che ha portato il 42% ad assentarsi nell’ultimo anno. “Per modificare le cose e sfidare la cultura tradizionale serve una mentalità diversa e dare un nuovo senso alla relazione con le persone”, sottolinea il Direttore Scientifico Mariano Corso

Pubblicato il 12 mag 2023



Osservatorio HR 2023

In Italia il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi o ha intenzione di farlo, una percentuale che raggiunge il 77% per gli under 27. E il 55% di chi dice di voler cambiare lavoro sta già facendo colloqui. Appena l’11 sta bene rispetto a tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo: psicologico, relazionale e fisico. Solo il 7% è felice. In generale, c’è un malessere diffuso, che ha portato il 42% dei lavoratori ad assentarsi nell’ultimo anno.

Sono questi alcuni dei dati relativi alla ricerca 2023 dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano che ha coinvolto ottocento rispondenti, presentati in occasione del convegno “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”. Sono numeri che fanno riflettere.

«Nell’ultimo anno il contesto lavorativo si è rivelato ancora più instabile – ha detto in apertura Mariano Corso, il Responsabile Scientifico dell’Osservatorio -. L’acronimo VUCA (volatile, uncertain, complex, ambiguous) con cui abbiamo descritto la complessità e unicità del periodo della pandemia è stato superato. L’acronimo che oggi più ci rappresenta è BANI (brittle, anxious, non-linear, incomprensible), che descrivere bene la condizione caotica e per certi versi impossibile da prevedere in cui ci troviamo. Un contesto di questo tipo non può non avere effetti sul mondo del lavoro, che è un po’ l’epicentro di molti fenomeni di instabilità sociale. Basti pensare alla Great Resignation e al Quiet Quitting».

Who's Who

Mariano Corso

Docente di Leadership & Innovation del Polimi, Responsabile scientifico dell’Osservatorio HR e dell'Osservatorio Smart Working del Polimi, Responsabile Scientifico di P4I-Partners4Innovation

Mariano Corso

Great Resignation: che cosa sta succedendo

Secondo Corso, le grandi dimissioni in Italia sono solo la punta dell’iceberg di un livello di disagio e di insoddisfazione che è ben più profondo.

Guardando ai dati, come detto in apertura, il 46% degli italiani ha dato le dimissioni o ha intenzione di farlo nel breve periodo. Se poi si guarda alla Generazione Z i dati dell’Osservatorio mostrano che il 77% dei giovani sotto il 27 anni rientrano tra i “resignator” o gli “intenders”, in pratica sono appena entrati nel mondo del lavoro e già stanno cercando di cambiarlo. «Se si guarda ai settori più colpiti da questo fenomeno si evince che il famoso “posto sicuro”, come storicamente era inteso quello in banca, non è più attrattivo come un tempo: proprio il settore finance è quello che ha registrato la percentuale superiore alla media di intenders nel medio periodo: il 30% pensa di cambiare lavoro nel giro di 12/18 mesi», ha sottolineato Corso.

Dalle rilevazione dell’Osservatorio HR 2023 emerge però anche un altro fenomeno: quasi la metà di chi ha già cambiato lavoro afferma di non essere soddisfatto delle nuove condizioni lavorative. «Si alimenta così un altro fenomeno, quello del Great Regreat, che porta a considerare migliore il lavoro che si è lasciato, sottolineando un’incapacità delle aziende di fornire una risposta reale e sostenibile rispetto alle nuove attese ed esigenze dei lavoratori».

Perché le persone decidono di cambiare lavoro

L’Osservatorio HR 2023 ha poi indagato quali sono oggi le motivazioni che spingono le persone a cambiare. Al primo posto c’è la ricerca di migliori condizioni economiche e benefit: «Questo non stupisce in un paese come il nostro in cui il livello delle retribuzioni è rimasto sostanzialmente fermo, anzi in termini reali ha avuto un decremento negli ultimi dieci anni», ha commentato il Direttore Scientifico.

Seguono la flessibilità nell’organizzare l’orario lavorativo, in ottica di conciliazione vita lavorativa e privata: «Si tratta di un bisogno così impellente da determinare la scelta di cambiare lavoro. In tal senso concorrono anche altre dimensioni come la distanza dalla sede, il carico di lavoro, la possibilità di decidere dove lavorare».

Al terzi posto c’è il benessere, che deve essere inteso quasi più come un malessere. Le motivazioni fisiche e mentali portano oggi un lavoratore su cinque a decidere di cambiare lavoro. Al di là di un diffuso stato individuale di ansia, a pesare particolarmente sono problemi di natura sociale: tra le principali motivazioni all’abbandono del lavoro troviamo, infatti, le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori.

Comunque, in generale, al di là di un diffuso stato individuale di ansia, a pesare particolarmente sono problemi di natura sociale: tra le principali motivazioni all’abbandono del lavoro troviamo, infatti, le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori.

È infine interessante sottolineare che il 13% ha segnalato anche l’opportunità di inseguire le passioni personali tra le motivazioni che portano a cambiare lavoro, probabilmente complice l’aver inserito nel campione della ricerca anche la GenZ.

Bilanciamento tra vita lavorativa e privata: gli italiani si dividono in Work-Life Integrator e Work-Life Separator

Come ha sottolineato Corso, nella situazione di fragilità e incomprensibilità in cui ci troviamo, che trova perfetta corrispondenza nell’acronimo BANI, le persone richiedono nuove cose, «primi fra tutti la flessibilità, l’equilibrio e il bilanciamento fra vita professionale e privata. Si tratta di una ricerca che si estrinseca in modi diversi, aumentando la complessità del mondo del lavoro».

Rispetto alla questione del bilanciamento tra la vita lavorativa e quella privata, infatti, emergono due profili opposti. Da una parte ci sono i Work-Life Integrator, che cercano il loro equilibrio puntando su una perfetta integrazione, appunto, tra lavoro e privato, senza vincoli. Dall’altra parte ci sono i Work-Life Separator, che anelano a una separazione netta dei tempi e degli spazi di lavoro. «Questi profili in termini quantitativi quasi si equivalgono e questo crea una complessità ulteriore, non è facile dare risposte a livello organizzativo quando si ha una spaccatura di questo tipo. È interessante notare che entrambi gli atteggiamenti sono fisiologici, ma possono sfociare, se non gestiti adeguatamente, in situazioni patologiche: il Job Keeper e il Quiet Quitting».

I Quiet Quitter toccano quota 2,3 milioni

Una Work-Life Separation non correttamente gestita porta al Quiet Quitting. I Quiet Quitter sono il 12% dei lavoratori italiani (2,3 milioni, per intenderci). Si tratta di persone che non lasciano l’organizzazione ma decidono di fare il minimo indispensabile per non essere licenziati. In generale, mettono poco impegno e si adagiano in una situazione che dal punto di vista del benessere psicologico porta a una situazione critica. Sono piuttosto apatici, poco interessati alle relazioni di lavoro e hanno livelli di engagement bassi.

Poi ci sono i Job Keeper, circa il 6% dei lavoratori, 1,1 milioni. In questo caso, sono il risultato di una Work-Life Integration non correttamente gestita e incanalata. Si tratta infatti di persone che non hanno la capacità di staccare, avviluppate in una spirale di ansia da prestazione. Nel breve periodo sono più ingaggiate, ma risultano anche particolarmente critiche perché rischiano di adottare una serie di comportamenti che sono tossici per l’organizzazione, mostrando anche atteggiamenti conflittuali e comportamenti che creano carichi e ritmi di lavoro insostenibili per loro e per gli altri. Questa attenzione alla performance, a lungo andare, crea delle spaccature organizzative pericolose.

«Questi sono degli elementi patologici, ma in realtà esistono anche situazioni fisiologiche che sono comunque problematiche. In generale, guardando all’engagement, il numero di lavoratori pienamente coinvolti negli ultimi 3 anni è passato dal 26% (1 su 4) a un preoccupante 13%», ha ribadito Corso».

Che cosa possono fare quindi le organizzazioni? Secondo l’Osservatorio HR 2023 si deve lavorare su tre dimensioni. Prima strategia: puntare su leadership e cultura del feedback (il 60% delle organizzazioni sta cercando di favorire il feedback continuo, ma solo l’8% valuta i manager sulla loro capacità di far crescere il team. Seconda strategia: lavorare sui talenti e creare dei percorsi trasversali. Si tratta di un elemento chiave per coinvolgere i Work-Life Separator, ed evitare che diventino Quiet Quitter. Anche in questo caso poche organizzazioni riescono a fare delle proposte che stimolino le passioni delle persone: il 28% da la possibilità di auto-candidarsi a progetti interni e/o esterni per acquisire nuove competenze e il 19% ha piani di crescita per valorizzare i punti di forza delle persone. Terza strategia: favorire lo sviluppo di interessi extralavorativi e la conciliazione vita-lavoro. Le organizzazioni più evolute stanno cominciando a offrire da questo punto di vista una serie di stimoli e servizi (creando, ad esempio delle community, nel 23% dei casi o coinvolgendo le persone nella definizione dei benefit aziendali, nel 13% dei casi).

«In pratica, quello che abbiamo riscontrato è un forte disallineamento tra le aspettative dei diversi lavoratori e le risposte che danno oggi le organizzazioni, che sono le stesse vecchie risposte che oggi non hanno più grip e non rispondono alle vere domande e bisogni», ha sottolineato Corso.

Il modello della piramide della felicità presentato dall’Osservatorio HR 2023

La crisi che stiamo vivendo e che perdura, quindi, non è una crisi tecnologica, economica, sanitaria o geopolitica, alla sua radice c’è la ricerca di un profondo bisogno di benessere e di trovare significato.

«Per risolverla non si possono usare gli strumenti classici dell’organizzazione e del management: bisogna avere il coraggio di ripensare l’organizzazione per riuscire a disegnare le nuove condizioni e relazioni di lavoro», ha detto il Direttore Scientifico.

Nuove condizioni che rappresentano i pilastri di quella che l’Osservatorio HR 2023 ha ribattezzato la “piramide della felicità”.

«Si deve partire dall’assicurare un giusto riconoscimento. Nel nostro Paese c’è molto da fare da questo punto di vista: il 25% delle direzioni ha aumentato i salari, ma solo il 7% dei lavoratori ritiene congrui la retribuzione e i benefit percepiti.

Il secondo fondamento della relazione di lavoro è la flessibilità: bisogna assicurare un livello adeguato di work-life balance. Le organizzazioni credono di fare molto in questo momento, ma utilizzano ancora leve primordiali. Si parla di una flessibilità parziale, ad esempio quando si parla di concedere la possibilità di lavorare da remoto. La reale flessibilità che porta all’autonomia spesso ancora è un miraggio, sottolineato dal fatto che solo il 6% dei lavoratori in Italia ritiene le iniziative in tal senso siano sufficienti.

C’è poi il benessere: abbiamo visto che c’è una vera e propria emergenza “malessere”. E ad oggi meno della metà delle Direzioni HR ha all’attivo iniziative a supporto di questo aspetto: solo il 6% delle persone si sente soddisfatto da questo punto di vista dal contributo dell’azienda.

Segue l’inclusione nell’organizzazione: le persone sentono la necessità di sentire valorizzate le loro competenze per sentirsi incluse, ma oltre la metà delle aziende non ha ancora implementato una strategia a supporto della DEI e solo il 9% si ritiene soddisfatto di come l’azienda gestisce le diversità.

Infine c’è l’employability. Siamo in un’era in cui occorre investire sull’impiegabilità e sulle competenze delle persone, ma solo il 60% dell’HR l’ha fatto e solo il 10% delle persone è soddisfatto.

Con questi 5 elementi si possono costruire le fondamenta di un lavoro che sia percepito come dignitoso, buono e sostenibile. Un lavoro che porta le persone a vivere in una condizione di non infelicità.

Però bisogna andare oltre e avere il coraggio di ambire a creare condizioni di felicità a lavoro. Questo vuol dire ripensare il lavoro e le relazioni, per creare un ambiente soddisfacente e ingaggiante, per potenziare la socialità e creare un legame affettivo tra le persone e l’organizzazione. C’è un profondo bisogno di appartenenza nei confronti dell’organizzazione. E poi c’è bisogno di un engagement pieno che può venire soltanto dalla condivisione di un purpose, dall’identificazione di un progetto comune dove la persona possa identificarsi nel medio-lungo periodo. Solo in questo modo le persone basandosi su un lavoro sostenibile e costruendo le condizioni di felicità al lavoro possono effettivamente dirsi realizzate.

Ripartendo, ricostruendo con visione questi pilastri di condizioni organizzative è possibile disegnare un’organizzazione che acquisisce un grande vantaggio competitivo, ridisegnando il senso della relazione con le persone», ha concluso Corso.

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