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Registrazione conversazioni al lavoro: se e quando possono causare il licenziamento



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Si tratta di una condotta non sempre legittima e, in assenza di alcuni presupposti idonei a giustificarla, può sfociare anche nell’allontanamento dall’azienda. In alcune ipotesi, infatti, si incorre in una violazione della privacy degli interlocutori e, al contempo, dei noti doveri di diligenza e fedeltà alla base del rapporto dipende-azienda

Pubblicato il 13 giu 2024

Federico Strada

Partner di DLA Piper

Stefano Petri

Avvocato di DLA Piper



Registrazione-conversazioni

Il tema della registrazione delle conversazioni sul posto di lavoro è in costante evoluzione e ha conosciuto, negli anni, numerosi interventi della giurisprudenza, a volte contrastanti. Non stupisce quindi che la vicenda oggetto della sentenza che analizzeremo, relativa alla registrazione di conversazioni avvenute tra dipendenti e dei suoi possibili risvolti, anche disciplinari, desta da sempre particolare attenzione.

Inutile nascondere, inoltre, che si tratta di una casistica via via più diffusa, anche considerata la facilità di utilizzo degli smartphone (molto spesso “nel taschino” di ognuno di noi e pronti all’uso) e una maggiore sensibilità, ormai generalizzata, rispetto alla normativa privacy.

La sentenza in questione, sebbene affronti anche dei temi ulteriori, come quello relativo alla sorte del rapporto di lavoro durante la pendenza del giudizio di impugnazione del licenziamento e alla c.d. “tempestività” del procedimento disciplinare avviato nei confronti del dipendente, offre degli importanti spunti al fine di capire quando la registrazione delle conversazioni tra colleghi possa essere considerata legittima o, invece, di rilevanza disciplinare.

Registrazione conversazioni: c’è una rilevanza disciplinare?

Registrare delle conversazioni private, sebbene avvenute nel contesto lavorativo ed intercorse con i colleghi o superiori è una condotta non sempre legittima che, in assenza di alcuni presupposti idonei a giustificarla, può sfociare – nei casi più gravi – anche nel licenziamento. In alcuni ipotesi, infatti, la registrazione può integrare una violazione della privacy degli interlocutori e, al contempo, costituire una violazione dei noti doveri di diligenza e fedeltà alla base del rapporto di lavoro: il datore di lavoro, infatti, una volta venutone a conoscenza, potrebbe ritenere leso il vincolo fiduciario alla base del rapporto stesso, reputando il dipendente (a torto o a ragione) poco affidabile. Ed è questo quanto avvenuto nel caso oggetto della sentenza in analisi.

Tuttavia, è bene osservare che, nonostante in alcuni casi potrebbero sussistere tutti i presupposti per licenziare il dipendente ritenuto “infedele”, la legittimità del relativo licenziamento deve fare i conti con il rispetto di una serie di requisiti previsti dalla legge, tra cui la tempestività del provvedimento stesso. Per cui, più in generale, il datore di lavoro che intenda sanzionare una condotta disciplinarmente rilevante deve farlo quanto più rapidamente possibile, pena l’illegittimità del provvedimento adottato.

Calando i principi indicati sopra al caso di specie, si ritiene utile precisare che – ogni qualvolta ci si trovi in presenza di un comportamento del genere – sarà necessario attuare una attenta valutazione del caso concreto al fine di comprendere la sussistenza di alcuni requisiti utili a determinarne la rilevanza disciplinare o meno. Dopodiché, sarà necessario procedere senza indugio.

Il caso specifico di un dipendente che ha usato le registrazioni come prove: che cosa è successo

Effettuato questo breve inquadramento generale, passiamo ad esaminare la recente sentenza n. 12393/2024 della Corte di Cassazione, pubblicata lo scorso 7 maggio.

La pronuncia in esame riguarda il caso di un dipendente licenziato per assenza ingiustificata. A seguito dell’impugnazione “stragiudiziale” del licenziamento da parte del lavoratore, quest’ultimo promuoveva ricorso innanzi al Tribunale con il fine di ottenere la pronuncia di illegittimità del provvedimento espulsivo comminatogli. Nel corso del giudizio, il lavoratore produceva due registrazioni audio (relative, rispettivamente, a una conversazione intrattenuta nel corso di una visita di controllo con il medico competente e ad una conversazione avvenuta con un dirigente della società), al fine di dimostrare la solidità giuridica della sua posizione.

Tali registrazioni venivano effettuate (e prodotte unitamente al ricorso) senza il consenso dei relativi interlocutori.

Il procedimento in questione terminava con la decisione del Tribunale, a mezzo della quale veniva dichiarata l’illegittimità del licenziamento e la reintegrazione del lavoratore. Non appena ricostituito il rapporto, e a distanza di circa sei mesi dal momento in cui la società era venuta a conoscenza delle registrazioni, quest’ultima licenziava per giusta causa il dipendente a causa della sua condotta “infedele”, consistita, per l’appunto, nell’aver registrato i colloqui con i soggetti già menzionati.

A seguito del (secondo) licenziamento, il dipendente proponeva nuovamente ricorso davanti al giudice del lavoro. Nel corso del procedimento (in particolare, durante la fase di reclamo promossa dalla società innanzi alla Corte d’Appello), veniva rilevata l’illiceità della condotta del lavoratore, poiché le registrazioni erano state “effettuate quando non erano ancora insorte esigenze difensive che le potessero giustificare ed in quanto prive, comunque, di sostanziale pertinenza rispetto alla tesi difensiva sviluppata dal lavoratore”. Ciononostante, veniva comunque ritenuto illegittimo il licenziamento (sebbene non passibile di reintegrazione) in considerazione della tardività dello stesso rispetto al momento in cui il datore di lavoro era venuto a conoscenza delle registrazioni.

La società impugnava la decisione della Corte d’Appello innanzi alla Corte di Cassazione, affermando che la conoscenza delle registrazioni era avvenuta solamente nel corso del giudizio avente ad oggetto il primo licenziamento (momento in cui il lavoratore non era più, quantomeno formalmente, alle sue dipendenze). Secondo il datore di lavoro, la tempestività del recesso risiedeva proprio nel fatto che la contestazione era stata mossa non appena il dipendente era stato reintegrato, ed era quindi tornato nuovamente alle sue dipendenze.

Le censure mosse dalla società, tuttavia, non venivano accolte dalla Cassazione. Ciò in ragione del principio secondo cui il licenziamento, nel momento in cui viene impugnato, di per sé non è idoneo a risolvere il rapporto di lavoro, in quanto sospeso fino alla conclusione del giudizio. Per questo motivo, secondo la Corte, il rapporto di lavoro era – seppur “virtualmente” – ancora in essere nel corso del primo giudizio; non vi era, quindi, alcun ragionevole ostacolo in ordine alla possibilità di procedere alla contestazione dell’addebito non appena il datore ne era venuto a conoscenza.

Per queste ragioni, la Corte respingeva il ricorso della società, confermando la pronuncia dei giudici d’appello sull’illegittimità del licenziamento e la condanna della società al versamento di diciotto mensilità corrispondenti all’ultima retribuzione globale di fatto del dipendente.

Le registrazioni sul luogo di lavoro sono legittime o no?

Nonostante la pronuncia in esame abbia reputato la condotta del lavoratore rilevante ai fini disciplinari (e, astrattamente, idonea a determinare la lesione del vincolo fiduciario alla base del rapporto), si possono ricavare, a contrario, i presupposti giustificatrici di tale contegno.

In estrema sintesi, il dipendente potrà legittimamente registrare le conversazioni intercorse con i suoi colleghi o superiori gerarchici nel caso in cui vi siano delle concrete esigenze difensive e purché l’oggetto della conversazione abbia ad oggetto tematiche pertinenti alla tesi sostenuta da quest’ultimo (ovvero, si riferiscano a fatti direttamente collegati a quanto intende provare).

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