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Polimi: cresce lo Smart Working in Italia. Progetti in corso in 3 grandi imprese su 10, coinvolto il 7% del personale

Si rafforza l’interesse per le iniziative di lavoro agile, «che non è più un’utopia o una nicchia: i progetti maturano, e sale anche la consapevolezza a livello istituzionale», spiega Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Luci e ombre per le PMI: solo il 5% ha progetti strutturati, ma la quota di quelle non interessate crolla dal 48% al 18%

Pubblicato il 12 Ott 2016

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Il 2016 sarà ricordato come l’anno di svolta per lo Smart Working. Oggi, infatti, nel nostro Paese il 30% delle grandi imprese (ben il 17% in più rispetto all’anno scorso) ha realizzato progetti strutturati di lavoro agile, con pluralità di leve utilizzate e supporto del management.

Se poi si prende in considerazione il solo lavoro subordinato, sono già 250mila (circa il 7% del totale di impiegati, quadri e dirigenti) gli “Smart Workers”, ovvero coloro che possono definire a propria discrezione dove, quando e con quali strumenti lavorare. A formare questo gruppo sono per lo più uomini (69%) con un’età media di 41 anni, residenti al Nord (52%, contro il 38% al Centro e il 10% al Sud), che apprezzano particolarmente i benefici nello sviluppo professionale, nelle prestazioni lavorative e nel work-life balance di questa nuova modalità di lavoro rispetto a coloro che operano secondo quelle tradizionali.

Sono questi i risultati più notevoli della ricerca 2016 dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, che ha coinvolto 339 manager delle funzioni IT, HR e Facility, oltre a un panel rappresentativo di 1004 lavoratori (in collaborazione con Doxa) per rilevare le attuali modalità di lavoro delle persone.

«Il lavoro agile in Italia non è più un’utopia o una nicchia, il 2016 è stato un anno di crescente popolarità nell’opinione pubblica. A dimostrarlo anche la diffusione e la maturazione dei progetti delle imprese a cui si è accompagnata una maggiore consapevolezza anche a livello istituzionale, come dimostra il Disegno di Legge del Governo approdato in Parlamento», sottolinea Mariano Corso, il Responsabile scientifico dell’Osservatorio. «Sicuramente questi sono segnali positivi. Ma non bisogna mai dimenticare che per rendere il cambiamento reale è necessario usare l’intelligenza e il pensiero critico nell’organizzazione del lavoro: dare alle persone la possibilità di pensare consente di acquisire più autonomia nel realizzare il proprio lavoro. Non è soltanto possibile e giusto, ma è anche conveniente e porta valore a tutti».

Ma, come sottolinea Corso, «il cantiere è ancora aperto e attivo». Ad esempio, la percentuale di piccole e medie imprese che ha adottato iniziative strutturate è rimasta ferma al 5%, con il 13% che sostiene di lavorare già in modalità ‘Smart’ pur in assenza di progetti strutturati. Questo scarso interesse delle PMI dipende da una limitata convinzione del management e dalla poca consapevolezza dei benefici derivanti da queste iniziative.

I risultati della ricerca mettono però in luce anche un messaggio positivo: rispetto allo scorso anno è aumentato il numero di PMI interessate, o per lo meno a priori non contrarie, all’introduzione dello Smart Working . Infatti, se nel 2015 il 48% dichiarava di non avere interesse a introdurlo in azienda, quest’anno il numero si è ben più che dimezzato (18%) dimostrando una maggior consapevolezza e apertura. «Per le PMI persiste una barriera culturale», rileva Fiorella Crespi, Direttore dell’Osservatorio Smart Working. «Anche se l’aumento di consapevolezza fa ben sperare per il futuro».

Ci sono poi altri “cantieri” su cui sarà necessario un lavoro congiunto di aziende, istituzioni, sindacati e mondo della ricerca. «Innanzitutto c’è la PA, per cui l’obiettivo di diffusione di modelli flessibili introdotto nella riforma Madia è una nota positiva, ma non ancora sufficiente – continua Crespi -. C’è poi la necessità di rendere i progetti più pervasivi nel superamento degli orari di lavoro, nel ripensamento degli spazi e nella creazione di sistemi di valutazione per obiettivi. Ma sarà altrettanto importante evidenziare che lo Smart Working può abilitare la Digital Transformation introducendo nuove tecnologie in azienda. Infine c’è la declinazione e reinterpretazione di questo nuovo modo di lavorare nei settori manifatturieri anche alla luce dell’emergere di nuove professionalità, come quelle che scaturiranno dalle trasformazioni innescate dall’Industria 4.0».

Da un lato, quindi, la ricerca ha ribadito come l’interesse e l’adozione dello Smart Working nelle imprese sia ancora molto influenzato dalla dimensione aziendale, dall’altro ha messo in luce anche che nella maggior parte delle organizzazioni di grandi dimensioni è ancora in fase di crescita. Solo nel 25% delle imprese la diffusione viene considerata a regime, mentre nel 40% si trova nella fase di estensione dell’iniziativa, che prevede il coinvolgimento di una popolazione più numerosa. Ad avere ancora in corso una prima sperimentazione su un limitato numero di persone è il 35% delle aziende.

I risultati mostrano anche come le aziende siano consapevoli che lo Smart Working non si possa improvvisare: la quasi totalità (97%) delle organizzazioni che non ha ancora iniziative, ma che le introdurrà in futuro, sta conducendo un’analisi di fattibilità, con la definizione del modello da introdurre, della dotazione tecnologica necessaria e della popolazione target dell’iniziativa. Gli elementi più considerati durante questa fase sono la dotazione tecnologica di partenza, la predisposizione delle persone e le caratteristiche dei compiti: tre elementi fondamentali per poter definire non solo la fattibilità, ma anche le caratteristiche del modello di Smart Working adottabile in termini di policy e target potenziali.

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